Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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INIZIO CONTENUTO

Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

28/05/2008

Presentazione dei volumi contenenti i Discorsi Parlamentari di Giorgio Almirante presso la Sala della Lupa, Camera dei deputati

Cerimonia di presentazione dei discorsi parlamentari di Giorgio Almirante

Intervento del Presidente della Camera dei deputati
On. Gianfranco Fini

Questa pubblicazione della Fondazione della Camera dei deputati ci permette di ripercorrere quarant'anni di storia e di riflettere su tanti passaggi delicati e decisivi della vicenda italiana, dal dopoguerra alla fine degli anni Ottanta, riportandoci il clima del tempo, i suoi dibattiti, i suoi ideali, le sue passioni. E' un insegnamento che va ben al di là della Destra e che fa parte integrante della cultura politica nazionale.
Contribuiscono a raggiungere questi risultati l'ottima fattura dell'opera e la qualità dell'impegno profuso dai consiglieri parlamentari Filippo Cinoglossi, Eugenio Pasquina e Maria Teresa Stella, che hanno raccolto i discorsi. Un ringraziamento anche all'Ufficio pubblicazioni e relazioni con il pubblico della Camera dei deputati, che ha partecipato alla redazione dell'opera, che consta di oltre quattromila pagine divise in cinque volumi. E un ringraziamento a Gennaro Malgieri, autore del corposo saggio introduttivo.

Democrazia e pacificazione. Democrazia e nazione. E' in questo doppio binomio l'insegnamento di Almirante più fecondo a vent'anni dalla scomparsa. Il leader del Msi intuiva che non vi sarebbe mai stata piena integrazione di tutti i cittadini nelle istituzioni senza un Paese riconciliato con se stesso, oltre le appartenenze di partito e in nome di un'idea condivisa di nazione.
La necessità di instaurare un sereno confronto tra gli schieramenti e di consolidare la democrazia attorno a valori comuni è diventato oggi patrimonio comune del mondo politico. E colgo l'occasione della presenza di Luciano Violante per ricordare il contributo da questi offerto alla riconciliazione culturale e civile degli italiani negli anni in cui è stato presidente della Camera.
Il quadro era assai più problematico al tempo in cui il leader del Msi si muoveva da protagonista sulla scena italiana. Fino a vent'anni fa, erano in piedi i Muri degli ideologismi e agivano ancora le memorie dell'odio. Pur in un contesto tanto difficile, Almirante non smise mai di predicare l'idea che gli italiani dovessero ritrovarsi nel ricordo del passato e nell'apertura al futuro. Nel ricordo del passato, perché il leader della Destra era consapevole che solo il riconoscersi in un racconto della storia affrancato da interessi di parte avrebbe permesso di riconquistare l'idea di un destino comune. Nell'apertura al futuro, perché intravedeva la necessità delle riforme istituzionali per dare all'Italia una democrazia più solida, più matura, più vicina ai cittadini, più capace di decisione.

Affermare che Almirante fu uomo votato alla pacificazione non significa dire che fosse indulgente con i suoi avversari.
Come uomo di parte, Almirante capiva che il futuro della Destra non poteva consistere nell'inseguire fumose, velleitarie e sterili prospettive rivoluzionarie, ma nel suo essere dentro la comunità nazionale condividendone fino in fondo le sorti. La sua lungimiranza fu nel non chiamarsi mai fuori dall'Italia anche quando l'Italia della politica puntava a marginalizzarlo e, in una certa fase, anche a perseguitarlo.
Il segretario del Msi volle mantenere sempre la sua critica entro la dialettica democratica. La sua polemica non era diretta alla demolizione del sistema politico ma all'alternativa. Per lui alternativa voleva dire costruzione di una nuova repubblica capace non solo di decisione ma anche di una più compiuta rappresentanza della società. Vale la pena citare un passo del suo intervento al dibattito sulla fiducia al governo Craxi nella seduta del 10 agosto 1983: "Noi rappresentiamo, dopo circa 40 anni, la volontà di tanta parte del popolo italiano di rivedere integralmente le istituzioni, non per renderle meno garanti di libertà e di diritti, ma per renderle, se possibile, molto più garantiste e di diritti e di libertà. Noi rappresentiamo la volontà di spostare l'attuale sistema politico italiano verso direzioni che diano finalmente agli italiani, soprattutto al mondo del lavoro e della produzione, la possibilità di esprimersi ai massimi livelli di libertà e al tempo stesso di giustizia e di progresso".

La sua idea di democrazia era il libero e chiaro confronto delle idee. Era il dibattito, acceso ma leale, tra maggioranza e opposizione. E Almirante interpretò fino in fondo il suo ruolo di oppositore, consapevole che, anche da tale posizione, egli potesse e dovesse contribuire al futuro dell'Italia.
Era un oppositore che non mancò di esprimere la sua solidarietà agli avversari e ai vertici delle istituzioni nei momenti più difficili della storia repubblicana. Così si rivolse a Giulio Andreotti nel dibattito sulla fiducia al governo nella drammatica seduta del 16 marzo del 1978, nello stesso giorno della strage di via Fani e del sequestro di Aldo Moro. Il sen. Andreotti, qui presente, ricorderà sicuramente quei momenti tragici e la tremenda prova cui fu sottoposta la democrazia italiana. "Signor presidente - disse Almirante - la prego di consentirmi, nel quadro dei discorsi di circostanza che abbiamo udito (...), di inserire un discorso di opposizione, pur breve e composto, come l'occasione consiglia e impone. Se non erro, è il primo discorso di opposizione pronunciato oggi in quest'aula, opposizione della quale noi sentiamo altissimo il senso di responsabilità, perché crediamo di non errare affermando che in momenti come questi, e comunque in ogni momento, l'opposizione ha non soltanto il diritto, ma il dovere, proprio perché opposizione, di sentirsi rappresentante genuina dello Stato e della società purché si tratti di una opposizione responsabile, certamente di contrasto, ma senza dubbio di proposta e di alternativa".
Sono parole che possono risuonare oggi con un'eco in qualche modo familiare, oggi che altre emergenze, certo assai meno tragiche di quelle di trent'anni fa ma tali comunque da impegnare a fondo le istituzioni, si presentano all'Italia. Il problema odierno non è quello di respingere, come trent'anni fa, un "attacco al cuore dello Stato" quanto invece fronteggiare l'emergere di un anarchismo diffuso che si nutre di diversi elementi: dalla sfiducia dei cittadini verso le istituzioni all'indebolimento dei vincoli all'interno della nazione intesa come comunità solidale. Il rischio, come ha denunciato ieri Angelo Panebianco, è il passaggio dallo Stato debole allo "Stato fallito", prospettiva che si spalanca quando lo Stato stesso perde la capacità di far valere la propria autorità.
Il dialogo tra maggioranza e opposizione in nome del superiore interesse nazionale rappresenta una conquista per la cultura democratica del nostro Paese. E' un risultato che permette di raccogliere, in questo primo decennio del 2000, i frutti cresciuti grazie alla seminagione di idee e di valori del XX secolo. Guai a ritenere che il Novecento sia da condannare in blocco, che nulla del secolo passato possa essere oggi salvato. Sarebbe come inaridire le fonti storiche della libertà e della democrazia. Equivarrebbe a dimenticare gli uomini e le esperienze da cui quei valori sono scaturiti. Una democrazia smemorata è tutto fuorché una democrazia solida. La civiltà nei rapporti politici non è solo un fatto di bon ton ma il frutto di una evoluzione storica della quale è necessario avere la consapevolezza.

In questa parte più feconda del secolo scorso, in questo Novecento dal "volto umano", Almirante è presente insieme con altri illustri protagonisti della politica che si sono dimostrati capaci di grandi visioni e che hanno fornito un apporto decisivo alla costruzione della democrazia. A volte pagando anche di persona la propria coerenza e il proprio senso dello Stato, come nel caso di Aldo Moro, o come, per altri versi, nel caso dello stesso Berlinguer, che fu colto dal malore che precedette la sua scomparsa mentre era sul campo, a onorare la democrazia tenendo un comizio a Padova durante la campagna elettorale per le Europee del 1984. Proprio nei giorni del lutto e del dolore per il Pci, Almirante scrisse una delle pagine più intense e dal più alto valore civile della sua carriera politica recandosi a rendere omaggio alla salma del leader scomparso nella camera ardente allestita nella sede di Botteghe Oscure. Quel nobile gesto fu ricambiato dal Pci quattro anni dopo, quando Giancarlo Pajetta e Nilde Iotti vennero a rendere omaggio ad Almirante e a Romualdi nel giorno del dolore e del lutto del Msi. Quelle due immagini, a distanza di quattro anni l'una dall'altra, appartengono a pieno diritto a quel Novecento dal "volto umano" che abbiamo il dovere di ricordare, il Novecento che supera la logica della guerra civile e guarda al futuro con lo spirito della riconciliazione.

Nel caso di Almirante c'è una particolarità da tenere presente. E' che il leader della Destra offrì il proprio contributo al consolidamento della democrazia al di fuori del cosiddetto "arco costituzionale" e nella scomoda posizione di chi sperimentava su di sé la "conventio ad excludendum". Si trovò cioè a difendere le istituzioni e a interpretare lealmente il ruolo di oppositore sapendo bene che, da quella scelta, non avrebbe ricavato alcunché, né in termini politici né tantomeno in termini di potere.
Il leader della Destra nazionale non era, non poteva essere - né tantomeno desiderava esserlo - uno dei padri della Repubblica democratica. Però ci teneva a ribadire che la sua patente democratica egli se l'era conquistata sul campo, come scrisse nella sua autobiografia.
E queste quattromila pagine ci narrano questa opera che comincia con il suo esordio da parlamentare, quando, neanche trentaquattrenne, esprime a De Gasperi la volontà del suo partito di dare vita un' "opposizione soltanto intonata agli interessi dell'Italia". E' il 4 giugno del 1948 e alla Camera si discute la fiducia al governo uscito dalle storiche elezioni del 18 aprile.
Almirante prosegue la sua opera nel corso di quarant'anni. Il rammarico è che egli non abbia avuto il tempo di vedere realizzate le sue intuizioni. Però conforta il pensare che abbia comunque percepito, nell'ultimo tratto della sua vita, che qualcosa di importante s'era messo in moto nel cuore del Paese. Di questa percezione troviamo l'eco nell'ultimo discorso tenuto alla Camera, in occasione del dibattito sulla fiducia al VI governo Fanfani il 21 aprile del 1987. "Sta di fatto - dice Almirante- che siamo di fronte ad una crisi di sistema. Qualcosa comincia finalmente a tradursi in realtà. Lo stesso onorevole Craxi ha fatto propria una delle tesi da noi sostenute, cioè la necessità che il Presidente della Repubblica sia eletto direttamente dal popolo. Gruppi parlamentari come quello socialdemocratico hanno presentato proposte per l'elezione diretta del sindaco: e non si tratta di una riforma meno importante della precedente, anzi in qualche modo si può dire che sia addirittura più importante". Sul dialogo tra Psi e Msi-Dn sulle riforme potrà fornirci una interessante testimonianza Gennaro Acquaviva che fu uno dei più stretti collaboratori di Craxi in campo istituzionale al tempo in cui il leader socialista era a Palazzo Chigi.
E' superfluo soffermarsi sull'attualità di questo passo. Che la democrazia dell'alternanza abbia trovato nell'elezione diretta dei sindaci un efficace strumento di affermazione è cosa da tempo ammessa dalla generalità degli osservatori. Sul principio presidenzialista, vale la pena di sottolineare che esso non è più tabù neanche a sinistra. Del resto, parliamo di un principio che anche la sinistra europea ha saputo bene applicare quando ne ha avuto la possibilità. Basti pensare alla lunga presidenza di Francois Mitterrand e al segno forte che ha lasciato nella storia, non solo della Francia ma di tutta l'Europa. Ed è bene anche ricordare che il presidenzialismo non appartiene soltanto alla cultura della destra italiana, ma anche di una sinistra d'impronta liberale e di ascendenza risorgimentale che fu minoritaria negli anni del dopoguerra salvo poi prendersi la sua rivincita politico-culturale alla fine del secolo scorso. Penso all'isolata battaglia in favore dell'elezione diretta del capo dello Stato svolta in seno dell'Assemblea Costituente da due eminenti intellettuali del Partito d'Azione, il giurista Piero Calamandrei e lo storico Leo Valiani. In un intervento di notevole spessore culturale e politico, Calamandrei ricordava che erano proprio le democrazie fragili, paralizzate e cronicamente indecise quelle maggiormente esposte al rischio di involuzioni autoritarie, non certo quelle capaci di autorità e decisione.

Infine, più ancora che le doti di anticipatore, quello che resta nell'insegnamento di Almirante è la sua lezione di italianità e di rigore morale. La sua eredità, insieme con quella degli altri protagonisti del Novecento "dal volto umano", è preziosa ancor oggi per il tessuto morale e civile dell'Italia. Erano uomini che si combatterono - e duramente - per tutta la vita. Ma si rispettarono sempre. E furono tutti animati da un grande senso dello Stato, pur nella diversità delle rispettive prospettive ideologiche. La profondità di queste divisioni non va nascosta, in nome di equivoci buonismi. Il conflitto in Italia è stato duro, a tratti durissimo, ed è durato a lungo. Però è incontestabile che la democrazia è rimasta solida e che l'Italia della seconda metà del Novecento non è scivolata nel baratro della guerra civile, anche per merito di quella generazione di uomini politici.
Questa è l'ultima frase pronunciata da Almirante in Parlamento: "Buona fortuna agli avversari, noi abbiamo buona coscienza, il che è più importante".
E' dalla buona coscienza dei protagonisti della politica che nasce la fortuna dell'Italia. Oggi come ieri.