Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

03/10/2008

Verona - Università degli Studi - Lectio magistralis su "Il valore della ricerca e della trasmissione della conoscenza per lo sviluppo del Paese nei princìpi della Costituzione"

Magnifico Rettore, Autorità accademiche, Autorità civili, Signore, Signori!


A partire dagli anni '30, e per alcuni decenni successivi, si è sviluppata, nel nostro Paese, una intensa ed appassionata polemica tra due dei più profondi pensatori italiani.

Per Benedetto Croce, l'essenza del liberalismo era da individuare in una generale "weltanschauung" politico-filosofica che, riguardando la stessa vita ed i rapporti degli uomini, non poteva, per sua natura, che attingere a valori immodificabili. Il liberismo, invece, evidenziava un carattere contingente, essendo collegato ad uno specifico assetto dei rapporti economici.

Da ciò, la conseguenza, per Croce, della possibilità che il liberalismo potesse convivere con sistemi di produzione economica diversi dal liberismo e, in via di ipotesi, anche con quelli di matrice socialista.

Luigi Einaudi, invece, sosteneva che il liberalismo non poteva, in alcun modo, sussistere al di fuori di un assetto economico di stampo liberista. La presenza di una pluralità di soggetti che agiscono in regime di concorrenza nel mercato ed il libero funzionamento delle leggi della domanda e della offerta costituivano, per l'economista piemontese, il necessario ed ineliminabile substrato del liberalismo.

Il riconoscimento della proprietà privata e la diffusione del potere economico tra più soggetti rappresentavano, quindi, una condizione ineludibile e non più rinviabile per la sopravvivenza di un sistema liberale, in quanto la concentrazione dell'economia in un unico apparato, secondo il modello del cosiddetto "socialismo reale", e la soppressione della libertà privata non potevano che indurre al dispotismo.

Si tratta di una polemica che, su temi del tutto simili, anche se in un diverso contesto politico-geografico, ha visto contrapposti due grandi pensatori austriaci, Kelsen ed Hayek.

Se, infatti, il primo afferma che "né il capitalismo, né il socialismo implicano una determinata procedura politica, per cui entrambi sono, in principio, compatibili sia con la democrazia che con l'autocrazia", il secondo sostiene che "il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo esclusivo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati più alti e quali più bassi; in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi".

Si tratta di riflessioni che non credo possano essere trascurate quando si affrontino i delicati temi della conoscenza, della sua trasmissione e della ricerca.

In particolare, occorre innanzi tutto interrogarsi se questa triplice tipologia di azioni umane possa svilupparsi al di fuori della democrazia o se ad essa sia coessenziale la presenza di un ordinamento democratico.

La risposta, a mio giudizio, richiede che i tre tipi di azione siano valutati, semplicemente, scorporando l'uno dall'altro.

Conoscere vuol dire cercare di valutare i dati, le informazioni, i fatti e tentare di ordinarli secondo criteri logici che ne permettano una esatta comprensione. E', quindi, evidente la strettissima connessione che intercorre tra la conoscenza e la democrazia. Un regime assolutista limita, infatti, le possibilità di acquisizione dei dati e, peggio ancora, li falsifica.

Viene alla mente il ricordo di due tragici avvenimenti accaduti nel secolo scorso: l'incendio del Reichstag, che la propaganda nazista attribuì proprio al bolscevismo di impronta ebraica che voleva perseguitare e sterminare, e le fosse di Katyn, la terribile strage di ufficiali polacchi che il regime sovietico tentò di attribuire ai nazisti.

Come si può, in un regime dittatoriale, avere una precisa percezione della realtà, se tutte le fonti di informazione sono controllate dal regime stesso e forniscono elementi di conoscenza del tutto falsi?

Ma anche prescindendo dai regimi totalitari del cosiddetto "secolo breve", qualunque sistema dispotico, avendo come prima preoccupazione il controllo delle notizie, impedisce il formarsi di una esatta conoscenza di ciò che realmente accade.

Pensiamo alla società del '600: anche se rispondesse a verità "l'eppur si muove", immortalato da Brecht, come poteva la società del tempo, ignara degli studi sulla meccanica celeste, entrare nelle profonde implicazioni del pensiero di Galileo, superando i divieti che allora erano posti alla diffusione delle idee?

E veniamo al secondo aspetto della triplice tipologia prima indicata: la trasmissione della conoscenza. Anche per questo aspetto non sono possibili conclusioni diverse: per evitare, infatti, che sia diffusa la sola "verità" gradita al gruppo dominante di turno vi è assoluta necessità di un ordinamento democratico.

Tornerò sull'argomento successivamente, quando affronteremo i princìpi che, in materia, ha fissato la nostra Costituzione.

A conclusioni ancora più stringenti si giunge con riferimento alla questione della ricerca. In questo settore, infatti, un sistema assolutista non solo può detenere un potere oppositivo, vale a dire impedire che certe ricerche siano effettuate, ma può addirittura sviluppare un sistema di ricerche tendenti a risultati perfino mostruosi. Si pensi, ad esempio, alle applicazioni eugenetiche che la folle ricerca nazista della cosiddetta "purezza della razza" aveva determinato, nonché, in epoca staliniana, alle teorie di Lisenko nel campo della evoluzione delle specie vegetali.

Si potrebbe obiettare che un sistema democratico non costituisce garanzia assoluta di un divieto di ricerche scientifiche che possano produrre risultati negativi; ma, in realtà, un sistema democratico contiene in sé le contromisure per assecondare o per rifiutare le scelte che gli vengono proposte o imposte.

A questo riguardo, vi è da riconoscere che la nostra Carta costituzionale fornisce tutte le garanzie non solo per ciò che concerne la solidità dell'impianto democratico, ma anche, in modo più generale, per ciò che attiene alla disciplina del fenomeno culturale.

Con la previsione, infatti, delle norme contenute negli articoli 9, 33 e 34, il Costituente ha posto, con lungimirante anticipo, i cardini per una compiuta realizzazione del modello di Stato ispirato ai valori più profondi della nostra cultura.

Il fenomeno culturale, inteso nel suo insieme, ovvero come difesa dell'ingente patrimonio storico-artistico presente in Italia, ma, soprattutto, come garanzia e sviluppo delle attività di ricerca e delle fasi di istruzione e formazione dei singoli cittadini, si pone oggi, ancor più che al momento della redazione del testo costituzionale, quale linea essenziale di evoluzione della dinamica della comunicazione interindividuale e collettiva.

Una piena espansione delle libertà di espressione artistica, scientifica e, lato sensu, linguistica, costituisce il presupposto indispensabile per l'integrazione delle culture, in una dimensione che poggia sulla pluralità delle articolazioni sociali.

In questo senso emerge ancor più chiaramente la difficoltà di interpretazione della laconica disposizione di cui all'articolo 9, primo comma, della Costituzione, secondo cui "la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica".

Inteso, infatti, come significato omnicomprensivo, il termine "cultura" si connette ad un tipico "concetto indeterminato", ad una "vox media", la cui concreta esegesi è rimessa, quasi per intero, all'opera dell'interprete.

Al riguardo, il Giudice delle leggi non ha mai fornito un'interpretazione del concetto costituzionale di "cultura". Ma i più recenti filoni della dottrina pongono in evidenza il fronteggiarsi di almeno due concezioni distinte: la prima, più ampia e tendenzialmente illimitata; la seconda, più ristretta e selettiva.

In base alla concezione ampia, fondata su un'interpretazione sistematica dei princìpi della Costituzione e riecheggiante i contributi delle scienze antropologiche, la cultura, di cui parla la Costituzione del 1948, è quella che nasce dal libero sviluppo della personalità dell'uomo, dalla sua libertà di scelta dei propri processi formativi, dalla libera formazione del suo sistema di valori, di talché il significato costituzionale di cultura finisce per coincidere con l'intero processo di formazione intellettuale della persona umana.

In questo senso, il principio fondamentale contenuto nell'articolo 9 dovrebbe essere ritenuto quello della tutela di tutta l'attività intellettuale dell'uomo: sia che avvenga nei campi più vasti e generali dello scibile umano (la cultura latamente intesa), sia che essa avvenga nei più definiti settori della scienza e della tecnica.

Secondo, invece, la concezione selettiva, la nozione costituzionale di cultura deve essere limitata alle manifestazioni superiori dell'intelletto umano e, dunque, solo alle espressioni culturali che raggiungano il livello dell'arte o della scienza, dal momento che gli altri elementi di cultura, quali la morale, l'economia e la religione, sono inconciliabili con il tenore normativo dell'articolo.

Almeno, però, su un dato le due tesi convergono, contribuendo ad illuminare il significato dell'articolo 9: lo sviluppo della cultura è concetto talmente ampio che finisce per comprendere in sé anche la ricerca scientifica e tecnica.

Premesso che questa va intesa nel senso più vasto, comprensivo sia delle scienze della natura che delle scienze dell'uomo, in ciascuna delle due nozioni di cultura illustrate emergono elementi convergenti sull'unitarietà del fenomeno contemplato nel primo comma dell'articolo 9, costituendo l'espresso riferimento alla "ricerca scientifica e tecnica" nient'altro che una specificazione dello sviluppo della cultura volta ad indirizzare, in modo più puntuale, i compiti della Repubblica.

In questa prospettiva, l'articolo 9 della Costituzione sembra, dunque, delineare un quadro di intervento pubblico del tutto "disinteressato". Ma l'articolo 41, ultimo comma, della Costituzione, nel prevedere la programmazione economica, implicitamente consente un intervento del potere pubblico nella ricerca scientifica non più subordinato alle scelte dei ricercatori, bensì in funzione degli obiettivi socialmente ed economicamente ritenuti più utili.

E la conflittualità fra scelte del ricercatore e scelte del potere pubblico può divenire sensibile: con conseguenze più gravi in quei settori in cui gli strumenti di ricerca sono estremamente costosi e solo l'intervento del potere pubblico può consentirne l'impiego.

Certo, i rapporti fra politica e cultura sono estremamente più complessi di quanto non possa apparire da questi brevi riflessioni. La cultura nasce in un determinato ambiente storico e sociale e, per molti versi, ne rispecchia i bisogni e le istanze. Costituisce, di esso e delle sue contraddizioni, uno degli aspetti più significativi e caratterizzanti.

Esiste, peraltro, un'osmosi, in senso doppio, fra cultura e società, nel senso che la seconda alimenta la prima e nel senso che questa, siccome coscienza più chiara di problemi avvertiti da tutti, reagisce in vario modo sulla società medesima.

Ciò consente di supporre che non di rado gli obiettivi di ricerca indicati dagli organi competenti del potere pubblico rispecchino anche le personali inclinazioni del ricercatore. Vero è, peraltro, che alcuni ricercatori, per il settore in cui operano o per la loro particolare vocazione scientifica, sono portati ad affrontare vantaggi più lenti e meno facilmente misurabili per la società. Eppure è chiaro che la società, se non vuole precipitare in un'oscura ignoranza, con danni certi ancorché non facilmente misurabili, non si può disinteressare di certe discipline.

Il conflitto allora sorge non tanto fra esigenze meramente individuali ed esigenze collettive: sorge, piuttosto, fra ricerche che hanno "ricaduta" immediata e misurabile sul sistema produttivo e ricerche scientifiche dalle forti implicazioni etico-giuridiche.

Ecco, allora che la ricerca scientifica, la cui attività è un valore che fa avanzare i confini del sapere e, quindi, produce conoscenza, non può non assumere, laicamente parlando, una connotazione etica positiva.

Vorrei, qui, ricordare le parole di Ulisse, nei versi del Poeta: "fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza, che accendono gli animi dei vegliardi, giunti ormai alla soglia della loro esistenza".

Certo, questo valore positivo dell'attività di ricerca può entrare in crisi in casi limite, quando l'uso delle scoperte scientifiche in corso di elaborazione sia altamente discutibile, se non certamente inaccettabile, o, prima ancora, quando i mezzi impiegati risultino, di per sé, discutibili o inaccettabili sul terreno giuridico o etico.

Dal punto di vista giuridico, se l'attività di ricerca, che si avvale di mezzi dubbi o tende a risultati dubbi, fuoriesce dal sistema legislativo costituzionale, non potrà, senza alcun dubbio, essere valutata positivamente, bensì resterà soggetta a sanzioni previste in via specifica o generale dall'ordinamento. Se, invece, tale attività è da ritenersi complessivamente consentita, potrà, al massimo, esser valorizzata l'obiezione di coscienza del ricercatore.

In realtà, la problematica si presenta assai più complessa di quanto queste premesse potrebbero far supporre, giacché investe non solo la questione della liceità dei mezzi e dell'uso dei risultati, ma anche il rapporto di probabilità fra usi fruttuosi e danni possibili.

In questo caso, il giudizio morale e quello giuridico divengono sempre più complessi, perché si trovano a dover "scontare", al momento attuale, eventi futuri ed incerti.

Certo, se la società fosse unanime nel riconoscere l'impiego di certi mezzi come lecito o come non lecito, e fosse, altresì, unanime nel valutare l'uso dei risultati, nessun problema potrebbe sorgere, giacché essa "adotterebbe" leggi e decisioni tali da soddisfare tutti e ciascuno.

Il problema, però, è che questa unanimità non sempre sussiste, neppure su tali temi fondamentali.

Non è a caso che, in certi momenti storici, alcuni temi di fondo divengano prevalenti, talvolta in modo così tumultuoso da rendere non agevole la soluzione dei problemi.

Mi riferisco soprattutto alle questioni che investono direttamente il rapporto tra etica e progresso scientifico, ossia il rapporto fra il grande sviluppo della scienza ed il suo inquadramento in temi etici, secondo i quali non è automaticamente lecito tutto ciò che è possibile nella ricerca e, oltretutto, non è lecito che le conquiste della ricerca scientifica rimangano soltanto privilegio di pochi.

E' noto a tutti come la scienza, in questi ultimi tempi, abbia affrontato, in modo fortemente innovativo, problemi decisivi della condizione umana, dal momento della fecondazione al momento della morte. Li ha affrontati con straordinarie possibilità di avanzamento sul piano clinico e su quello della conoscenza, ma anche con il grande rischio di minare la libertà della persona umana alla radice dei suoi diritti fondamentali, dei quali, in nessun modo, essa può essere espropriata.

Il riferimento ai valori costituzionali può essere allora un modo per orientarsi e superare le difficoltà.

In questo senso, anche con riguardo ai temi ardui della cosiddetta "bioetica", si sono manifestati autorevoli suggerimenti. E, in effetti, la nostra Costituzione, almeno in tema di diritti umani, non è un compromesso inteso come transazione, bensì un incontro di diversi umanesimi, concordi nell'affermare valori comuni.

L'affermazione di tale assunto esalta, peraltro, il valore stesso, irrinunciabile, della conoscenza, la quale costituisce, per l'uomo, un fondamentale diritto-dovere. Il diritto-dovere di diventare ciò che è: di realizzare, cioè, la conoscenza quale sua più peculiare e propria possibilità.

Come scrive Aristotele, la filosofia, cioè l'amore del sapere, nasce dallo stupore di fronte all'essere delle cose. Lo stupore è l'apertura ontologica dell'uomo alla comprensione di sé, di tutto ciò che è e come esso è.

L'uomo è homo sapiens.

La connotazione dell'uomo come homo sapiens, o la definizione dell'uomo come animale razionale, per citare ancora Aristotele, sta ad indicare la possibilità di conseguire la conoscenza nella ricerca, che, come dice Karl Popper, di principio non ha mai fine.

Non ha mai fine come non la ha l'umanità. La vita di ogni uomo passa, l'umanità no.

Ecco perché la ricerca è essenzialmente e necessariamente trasmissione. Ogni uomo, però, è partecipe della funzione del sapere e della sua trasmissione: di qui la responsabilità verso tutte le generazioni future, non solo verso quelle più prossime.

Profilo, quest'ultimo, che investe direttamente sia l'aspetto della libertà individuale di ricerca, sia quello dell'autonomia complessiva delle istituzioni di alta cultura come le Università, che rappresentano, per antonomasia, il luogo elettivo nel quale si fondono la ricerca scientifica e l'insegnamento.

Pensare l'Università senza la ricerca è come snaturarne la funzione, così come pensarla senza l'insegnamento costituisce una visione assolutamente elitaria della stessa.

L'Università è, al tempo stesso, "centro di ricerca" e "sede di ricerca", cioè soggetto che svolge ricerca ed ambiente materiale e culturale destinato ad essere messo a disposizione di altri, donde libertà della scienza significa anche libertà di espressione del pensiero scientifico, diritto di trasmettere agli altri il proprio sapere.

Peraltro, il nostro ordinamento parte dal presupposto che il libero confronto delle idee e delle diverse scuole scientifiche, nonché la loro comunicazione e divulgazione, siano, come tali, un bene e che, quindi, non ci sia spazio per alcuna scienza di stato o verità ufficiale.

Il diritto di diffondere il frutto delle proprie conoscenze e a non tacere la "verità", che in buona fede si ritiene di aver raggiunto, anche se questa, poi, possa rivelarsi erronea, si iscrive, dunque, in un quadro di tutela del pluralismo delle idee e delle teorie scientifiche e delle istituzioni dedite alla ricerca.

Se, però, la "verità" scaturisce dallo sviluppo della libera concorrenza tra le idee, le opinioni, le scuole scientifiche, ciò non significa che lo sforzo dell'interprete non debba orientarsi nella direzione di individuare un criterio atto a distinguere l'attività scientifica dagli altri possibili campi dell'agire umano: e per quanto ci si sforzi di trovare un criterio accessibile in questa direzione, esso non può che essere individuato nella lettura combinata dell'articolo 21 della Costituzione con il primo comma dell'articolo 33 ("L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento"). Un principio, questo, che non potrebbe essere invocato da chi pretendesse di manifestare come scientifico un pensiero che non nasca dalla specifica volontà di ricercare la verità, che non sia indirizzato al fine di ampliare l'arco delle conoscenze del genere umano, che non sia sorretto dalla solida autocoscienza della propria scientificità, che non risulti da quell'insieme di intuizione e riflessione di cui sia rivelatore il metodo seguito.

In sintesi: libertà della scienza non è mai soggettività senza regole!

Nel momento stesso, quindi, in cui l'articolo 33 della Costituzione tutela il pluralismo delle teorie scientifiche, altri due sono i criteri di verità cui occorre far riferimento:
quello della verità come corrispondenza, per il quale il cosiddetto "diritto dello scienziato all'errore" non può trovare tutela, quando quest'ultimo nasca dal sistematico travisamento ed occultamento dei fatti, delle fonti, delle opinioni e dei dati;
quello, inoltre, della verità come coerenza, in quanto il pensiero scientifico non può che presentarsi sotto forma di discorso coerente, fondato quanto meno su un presupposto empiricamente verificabile: solo la sussistenza di queste condizioni ci dà la misura della scientificità del metodo seguito e consente di riportare alla scienza propriamente detta determinate manifestazioni di pensiero.

Il relativismo sul quale si fonda il criterio della verità come consenso, perde, pertanto, alla luce del nostro dettato costituzionale, quella sua apparente assolutezza. Dall'integrazione, invece, di scienza e verità discende il "benessere spirituale" della nostra Nazione, prima ancora che la sua promozione in termini economico-sociali.

Solo così è possibile rimanere nell'alveo di quell'ordine etico che si fonda sul compito specifico dell'uomo, quale custode, e non prevaricatore, dell'essere. Questo è il limite che la tecnica, più che la scienza, trova e deve laicamente rispettare.

Nel dispiegamento della razionalità in tutte le sue forme, ne va dell'essere stesso dell'uomo.

Ecco il fondamento del valore della ricerca! Ecco la ragione della ineludibilità di una "politica" per la ricerca, perché, come scrive Schelling, "Si dia all'uomo la coscienza di ciò che egli è, ed egli imparerà ben presto ciò che egli deve: gli sia dia il rispetto teoretico per se stesso e ne deriverà ben presto anche quello pratico".

Grazie.