Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

09/12/2008

Roma, Università Lumsa - Presentazione del libro di Gennaro Sangiuliano "Giuseppe Prezzolini - l'anarchico conservatore"

E' con piacere che partecipo a questo incontro dedicato a una figura, quella di Giuseppe Prezzolini, che dovrebbe essere cara a tutti gli italiani per l'insegnamento di libertà che ci ha lasciato.

Ringrazio il Rettore Giuseppe Dalla Torre per l'invito a parlare di questo autore centrale nella cultura nazionale del secolo scorso, in occasione della pubblicazione di un bel libro di Gennaro Sangiuliano, che offre una completa e accurata biografia del grande letterato. Occasione ulteriore è anche un centenario importante per la nostra storia culturale: la nascita de "La Voce" , il cui primo numero uscì il 20 dicembre del 1908.

Ritengo sia da condividere l'affermazione di Sangiuliano che definisce Prezzolini il prototipo dell'intellettuale interventista del Novecento (P.12). Lo rappresenta per la sua presenza nella società al di fuori dell'accademia, per la sua indipendenza dal potere e per la sua onestà nella critica ai processi sociali e politici.

Il fondatore de "La Voce" fu sempre un'intelligenza scomoda e libera. Con quella rivista si proponeva di rinnovare una società che giudicava immobile, mediocre e passatista.

Era un obiettivo condiviso dagli ingegni più vivaci e creativi della sua generazione. Vale la pena di sottolineare che l'Italia di quegli anni era una straordinaria fucina culturale. E va ricordato che tra breve si celebrerà nel nostro Paese un altro importante centenario, quello del Manifesto del Futurismo. Il 20 febbraio del 1909, due mesi esatti dopo la nascita de "La Voce", Filippo Tommaso Marinetti lanciava, dalle colonne de "Le Figaro", la sua idea di arte totale, che tanto ha inciso nella cultura e nella comunicazione del Novecento, non solo italiano.

Ritengo che questa vicinanza di ricorrenze vada sottolineata nonostante i rapporti tra vociani e futuristi siano stati tutt'altro che idilliaci. Il fatto è che quella generazione ci ha lasciato un ingente patrimonio spirituale.

Di essa ci rimane innanzi tutto un insegnamento, che ritengo valido anche oggi e, sotto certi aspetti, oggi ancor più di ieri: la vera forza di una nazione è l'intelligenza. Intelligenza visionaria della creazione d'arte e, naturalmente, intelligenza applicata alla scienza, alla tecnologia, alla politica, all'economia e a tutto ciò che riesce a migliorare la qualità della vita sociale.

L'intelligenza, per Prezzolini, si è rivelata sinonimo di feconda eresia. Ciò ci porta al suo rapporto libero con la sfera della politica e alla sua coerente opposizione al conformismo culturale.

Il suo essere intellettuale interventista si connotò in modo originale, anzi direi opposto, rispetto al significato normalmente attribuito a questo termine.
Prezzolini fu agli antipodi dell'intellettuale intruppato e "militarizzato", per così dire, che è sempre comparso, con modalità diverse, nelle varie stagioni del Novecento.

Il suo rapporto con il fascismo, prima, e con le ideologie che si affermarono successivamente in Italia è emblematico.
All'inizio Prezzolini riteneva che Mussolini potesse promuovere quel rinnovamento dell'Italia che aveva auspicato dalle colonne del "Leonardo" e della "Voce". Ma quando il fascismo salì al potere, se ne ritrasse deluso, preferendo l'esilio e la libertà negli Stati Uniti, dove renderà un grande servizio al Paese facendo conoscere la nostra cultura al di là dell'Atlantico.

Il senso di critica nei confronti delle culture dominanti rimase in lui forte anche dopo la caduta del fascismo e l'avvio della nuova fase storico-politica. Continuava a sentirsi straniero rispetto all'Italia, come scrisse in una lettera a Papini del 1953.

Non era un senso di aristocratico distacco. Era la capacità di guardare dentro l'anima italiana senza farsi grandi illusioni e dissacrando i falsi moralismi.

Sangiuliano scrive che l' incontro di Prezzolini con Leo Longanesi sulle colonne de "Il Borghese" , fondato nel 1950, fu fatale (P.396). Longanesi era un altro grande irregolare, un'altra grande voce fuori dal coro del Novecento italiano.

La cifra comune di chi scriveva su quella rivista era l'ironia e il desiderio dello smascheramento.

I critici di Prezzolini e Longanesi potrebbero dire che il loro costante atteggiamento critico rivela uno scetticismo di fondo.

Forse è così. Ma non dovremmo in tal caso attribuire a questo termine una connotazione negativa. Perché quello scetticismo non vuol dire isolamento o indifferenza, quanto piuttosto desiderio di dare voce a chi non ha voce.

L'Italia di Prezzolini e Longanesi esisteva realmente, non era un'utopia. Era un nucleo di sentimenti e di valori vissuti nel Paese profondo e che non trovava adeguata rappresentanza politica. Era un'Italia - come si legge in un editoriale del "Borghese" citato da Sangiuliano - che percepiva stipendi ridicoli e indossava abiti "rivoltati". Un'Italia laboriosa, onesta e parsimoniosa, dai valori, per l'appunto, solidamente borghesi, ma che non si rassegnava alle "leggi malfatte, alle riforme male imbastite, allo sperpero del denaro pubblico".
Spetta ai politologi e agli storici dire se quell'Italia ha trovato o meno la sua compiuta espressione politica nelle trasformazioni avvenute nel nostro Paese durante gli anni Novanta. La mia opinione è che ci sono molte fondate ragioni per sostenere che è accaduto.
Certo è che quell'anticonformismo di Prezzolini, quel suo essere al di fuori dal coro, quella sua fedele militanza nel partito del buonsenso e dell'intelligenza appare, alla luce dell'evoluzione storica successiva, una posizione anticipatrice.
Questo carattere di Prezzolini risalta con maggiore evidenza se proviamo a confrontare il suo percorso con quello di tanti altri intellettuali italiani che hanno preferito salire sul carro dei vari vincitori del momento. Non c'è il tempo per fare un'analisi approfondita di questo specifico argomento. E occorre accostarsi sempre con senso di rispetto al percorso politico, spesso sofferto, di tanti uomini di cultura.
Ma non c'è dubbio che il rapporto tra cultura e politica nel nostro Paese abbia rappresentato in passato un punto, per molti aspetti, dolente.
Una larga parte degli intellettuali italiani si fece prima irretire dal fascismo. Poi accorse sotto le bandiere del Partito comunista. Poi seguì con entusiasmo il sogno della rivoluzione sessantottina. Poi si batté il petto e cantò quasi all'unisono le gioie dell'effimero, l'ebbrezza dell'edonismo e i giochi del linguaggio.
Non sono certo mancate le eccezioni, che sono state anzi numerose. Pensiamo a Vittorini. Oppure, in tempi più recenti, a Leonardo Sciascia o al Pierpaolo Pasolini degli "Scritti corsari". O a Giuseppe Berto. O ancora a Giovannino Guareschi.
Rimane però il fatto che gli intellettuali liberali - non tanto nel senso politico del termine, quanto in quello etimologico di coerenti testimoni della libertà - hanno avuto sempre vita difficile in Italia.
E dico intellettuali non solo nella loro attività di scrittori, artisti o registi, ma anche in quella di organizzatori culturali. Pensiamo soltanto - parlando di conformismo e di organizzazione rigida della cultura - che un testo capitale per la cultura politica odierna - "La società aperta e i suoi nemici" di Karl Popper - dovette aspettare una trentina d'anni dalla sua prima uscita all'estero per essere pubblicato in Italia. Era la metà degli anni Settanta e tale iniziativa fu resa possibile solo dal coraggio di una allora piccola casa editrice, la Armando Armando.
Noto di sfuggita che in quell'epoca dominava in Italia, come libro-cult, "L'uomo a una dimensione" di Herbet Marcuse. Dopo più di trent'anni, Popper è uno degli autori più citati nel nostro Paese.
Di Marcuse si sono quasi perse le tracce.
Al dunque, quale modello di intellettuale "interventista" risulta più fecondo? Quello dei Prezzolini che valutano con libertà e disincanto i fatti della politica e della società?
O quello dei tanti che, sentendosi investiti di una missione storica, danno fiato alle trombe dell'ideologia?
Non spetta a me dare la risposta. Ma è una domanda che non possiamo fare a meno di porci oggi, valutando con serenità la vicenda del Novecento italiano.

Il libro di Sangiuliano è ricco di tante altre suggestioni che meriterebbero di essere discusse. Mi limito in conclusione a soffermarmi su una delle ultime grandi provocazioni politico culturali di Prezzolini, alle quali Sangiuliano dedica numerose pagine nel finale del libro. Si tratta del "Manifesto dei conservatori", lanciato all'inizio degli anni Settanta, mentre le strade italiane erano percorse dai contestatori e mentre tanti altri intellettuali sottoscrivevano in gruppo manifesti di ben altro tenore.
La provocazione sta tutta in quel termine, conservatore, che in Italia non ha mai goduto di buona fama, per effetto della particolarità della nostra storia politica, ma anche per effetto di quella che Giorgio Almirante chiamava efficacemente "la guerra delle parole".
Da noi la parola conservatore è sinonimo di immobilismo e gretta difesa di privilegi. Assai diverso è il significato che le è attribuito nel mondo anglosassone e americano, che Prezzolini ben conosceva, dove il "conservatore" designa un soggetto che difende princìpi di fondo della società badando alla sostanza dei cambiamenti e affidandosi alla lezione dei fatti.
Dopo tanti anni il termine "conservatore" continua a essere utilizzato nel nostro Paese in senso dispregiativo. Ma ciò non ci deve portare alla conclusione che la provocazione di Prezzolini sia stata inutile. Perché se rileggiamo oggi quel libro, ci accorgiamo che molte delle affermazioni in esso contenute corrispondono ad un approccio largamente diffuso tra le forze politiche e culturali italiane, e non soltanto nel centrodestra.
L'atteggiamento mentale tipico del conservatore è quello di fuggire dalle rappresentazioni ideologiche e di promuovere cambiamenti che rispettino i valori di fondo della società, senza peraltro considerare tali valori immobili e cristallizzati, ma anzi cercando di adeguarli ai cambiamenti sociali. L'importante per il conservatore è che nei cittadini rimanga sempre viva la percezione di un cammino comune.
Se si pensa al grande cambiamento politico avvenuto negli ultimi 15 anni, forse oggi Prezzolini non si sentirebbe più tanto straniero in Italia.