Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

09/06/2009

Montecitorio, Sala della Regina - Presentazione del libro "Diritti e castighi" di Lucia Castellano e Donatella Stasio

Sono lieto di partecipare alla presentazione di questo interessante libro di Lucia Castellano e Donatella Stasio, che saluto e ringrazio unitamente al Presidente del Gruppo Pd al Senato Anna Finocchiaro, al Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta, al Presidente della VI Sezione penale della Corte di Cassazione Giorgio Lattanzi, all'editorialista del "Corriere della Sera" Massimo Franco. "Diritti e castighi" racconta in modo ampio e documentato i tanti problemi del sistema penitenziario italiano. Il volume conferma, e arricchisce di dati, quanto da tempo è posto all'attenzione dell'opinione pubblica da fatti di cronaca e da esponenti delle Istituzioni e della società civile. I mali di tante carceri del nostro Paese sono il sovraffollamento, la vetustà degli edifici, le numerose situazioni di degrado. In un panorama preoccupante non mancano naturalmente gli esempi virtuosi e le esperienze innovative, come il penitenziario di Milano Bollate, in funzione dal dicembre del 2000 e diretto da una delle autrici che punta a un trattamento avanzato dei detenuti, offrendo ad essi reali opportunità di studio, di lavoro e di reinserimento nella vita civile. Dal volume emergono però molte situazioni al di sotto dei parametri europei. Al di là del confronto con gli altri Paesi del Continente, il problema più rilevante su cui è importante interrogarsi è la distanza tra la realtà carceraria italiana e il principio sancito dalla Costituzione che le pene "devono tendere alla rieducazione del condannato" (art. 27). E' un principio all'avanguardia rispetto al diritto costituzionale di altri Paesi e che si deve intendere in modo il più possibile "laico" e rispettoso del diritto di autodeterminazione del singolo, oltre che di ogni altra libertà garantita dalla Costituzione. Esso tende a offrire al reo la possibilità di rientrare nel consesso sociale facendosi partecipe dei suoi valori e delle sue opportunità. Non va pertanto inteso come una sorta di "conversione spirituale" del condannato, ma come una "tensione" verso la sua piena "risocializzazione". Quella carceraria è una realtà che le istituzioni non possono e non debbono ignorare e la giornata odierna è il contributo doveroso della Presidenza della Camera verso quello che accade dentro le carceri. Il livello di civiltà di un Paese si misura anche dalla sua capacità di recuperare alla vita sociale chi, commettendo un reato, ha violato le regole fondamentali della convivenza civile. Per affrontare in tutta la sua ampiezza e complessità il tema dell'istanza rieducativa dobbiamo inserire il problema della condizione carceraria nella più ampia questione del sistema penale-giudiziario. In tal senso è opportuno osservare il principio della rieducazione del reo con l'altro principio, altrettanto cruciale, della certezza della pena. Certezza della pena significa che ogni cittadino deve sapere a cosa va incontro con la definitiva sentenza di condanna. Non è fondamentale che la pena sia "grave" (cioè che sia particolarmente afflittiva o tendenzialmente imperitura), ma che sia effettiva. Oltre che regola di giustizia, la certezza della pena è un deterrente posto a tutela della collettività. Dobbiamo onestamente registrare che c'è un senso di malessere e di allarme nell'opinione pubblica a causa del diffondersi della percezione che la certezza della pena risulti affievolita nella quotidiana realtà giudiziaria. Non a caso l'applicazione della legge suscita spesso vivaci discussioni nell'opinione pubblica, in ragione di diversi casi giudiziari che si risolvono in sconti di pena per riti alternativi o in benefici ritenuti eccessivamente indulgenti o elastici in fase esecutiva. Non è compito del Presidente della Camera entrare in tale dibattito. Tengo solo a ribadire il concetto che un moderno sistema penale, giudiziario e penitenziale raggiunge il suo scopo fondamentale di assicurare la giustizia e tutelare la sicurezza dei cittadini quando vengono contemporaneamente garantite la effettività della pena e l'efficace rieducazione del condannato. Vorrei aggiungere su questo punto che contribuisce a indebolire la certezza della pena anche l'eccessiva durata del processo penale. A parte il rischio della prescrizione, è chiaro che la forza deterrente della pena è tanto più efficace quanto più il cittadino sa con certezza di poter subire quella pena per intero e a breve tempo dal reato commesso. Osserva in proposito il grande Cesare Beccarla nel suo fondamentale "Dei delitti e delle pene": "Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e tanto più utile". A rendere ancora più difficile la garanzia dell'istanza rieducativa è poi la circostanza che spesso la pena viene di fatto anticipata in fase di custodia cautelare. Anche questo paradosso è collegato alla lentezza dei processi. E' arduo tentare di rieducare un soggetto prima ancora che la sua condotta venga giudicata e mentre si trova ancora nelle prime fasi processuali. Molto difficilmente la persona da reinserire nella società sarà disponibile a un trattamento rieducativo se non conosce neanche i motivi (espressi solo nella sentenza) per cui si trova in carcere. Altro grave problema è quello del sovraffollamento delle carceri. La coabitazione forzata di numerose persone in ambienti degradati non può certo favorire un processo di recupero dei detenuti alla vita civile. In passato si è tentata in Italia la soluzione dell'indulto. Tra le motivazioni di tale provvedimento è stata infatti addotta anche quella del sovraffollamento carcerario. Rispetto a tale soluzione sono state avanzate legittime e fondate perplessità. E ciò per diversi ordini di motivi. Innanzi tutto per il principio di ordine generale che l'indulto è un provvedimento di clemenza che va adottato solo in casi eccezionali, non per sfoltire le carceri. In secondo luogo perché l'effetto è stato quello di mettere improvvisamente in circolazione persone condannate con pene definitive, e soprattutto senza misure di reinserimento nella società. Sono state improvvisamente aperte le porte del carcere a soggetti che, non trovando alternative, sono tornati sollecitamente a delinquere. La costruzione di nuovi penitenziari appare quindi un'iniziativa non più differibile. Vorrei al riguardo ricordare che qualche anno fa la Francia ha adottato un vasto programma volto ad aumentare la capacità e a migliorare l'efficienza del proprio sistema penitenziario. L'obiettivo deve essere duplice: consentire condizioni di umanità nella detenzione e disporre della concreta possibilità di attivare i percorsi socio-terapeutici necessari per recuperare il detenuto. In tal senso, appare fondamentale riattivare modalità di detenzione che consentano l'attività lavorativa. E' importante migliorare le condizioni di lavoro dei detenuti in carcere e garantire la formazione degli operatori che devono assisterli. Attraverso il lavoro si dà dignità alla persona, qualunque lavoro svolga e ovunque lo svolga, anche in carcere. In conclusione, vorrei notare che le leggi attualmente in vigore (dall'ordinamento carcerario alla cosiddetta legge Gozzini) sono attente all'istanza rieducativa e risultano ispirate a moderni princìpi di civiltà giuridica. Vale però la pena notare che le trasformazioni avvenute negli ultimi anni in Italia, soprattutto in relazione al fenomeno delle grandi migrazioni, possono creare problemi nell'applicazione della legge a soggetti che appartengono alle fasce più deboli della società. La legge Gozzini è stata infatti pensata per detenuti che prima della condanna avevano una casa, una rete di relazioni sociali, un'occupazione. Ben diverso è il caso di tanti immigrati che finiscono in carcere. Il problema è ben descritto in un passo del libro che ritengo particolarmente efficace. "Se mi chiamo Mario Rossi, in carcere mi comporto bene e fuori ho una casa, un lavoro, allora ho la speranza di andare in permesso premio. Se mi chiamo Mohammed Alì e mi comporto bene, ma fuori non ho niente, in permesso non ci vado". E' chiaro quindi che il successo del processo di rieducazione e reinserimento è legato alla disponibilità, da parte del condannato, di risorse sociali e affettive. E questo richiama la necessità di politiche volte ad una moderna integrazione nella nostra società. Più in generale, è evidente che il buon funzionamento del sistema penale e penitenziario dipenda dall'equilibrio tra le diverse esigenze che in esso devono essere contemperate. Rieducazione e sicurezza sociale devono poter marciare insieme, come è regola negli Stati europei e occidentali. Gli obiettivi ideali e morali devono essere sempre verificati sul piano della prassi e dell'efficienza, superando ogni squilibrio che possa essere dettato da erronee impostazioni ispirate dalla paura, da un lato, e da visioni ideologiche , dall'altro. In altre parole, la qualità del nostro vivere civile dipenderà da come sapremo garantire la sicurezza dei cittadini recuperando nello stesso tempo, attraverso un valido sistema di rieducazione, il contributo che tanti uomini e donne, una volta scontata la pena, possono ancora fornire alla nostra società.