Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

08/10/2009

Torino - XXVI Assemblea annuale dell'ANCI

Autorità, Signore e Signori!

sono particolarmente lieto di partecipare all'Assemblea annuale dell'ANCI e ringrazio il Presidente Chiamparino per il cortese invito rivoltomi in un momento particolarmente importante per il futuro degli enti locali.

Riflettere sull'evoluzione del ruolo degli enti locali e, in particolare, dei comuni in epoca di federalismo e di riforma del sistema della finanza pubblica non è e non può essere un mero esercizio accademico, dal momento che oggi vi è una forte correlazione tra il livello e la qualità delle politiche locali e la pluralità delle domande che i cittadini giustamente rivolgono ai loro amministratori.

Una prima fondamentale domanda che dobbiamo porci è se il contenuto delle azioni politiche, istituzionali ed amministrative dei Comuni, delle Province, delle Regioni, nonché degli apparati statali, si orienti realmente verso una migliore e più corrispondente soddisfazione dei bisogni e delle aspettative delle comunità territoriali.

Dico questo perché a volte, nell'evolversi di un dibattito spesso confuso, emerge la sensazione che lo stato di precarietà permanente non sia del tutto addebitabile al mancato completamento delle riforme "ordinamentali", ma che derivi, invece, dal fatto che, dopo quasi venti anni, i princìpi di autonomia e di responsabilità non sono stati sufficientemente metabolizzati e non sono entrati profondamente nel corpo di tutti i settori dell'agire pubblico, dallo Stato alle autonomie locali.

E' sempre più chiaro che una maggiore ampliamento della sfera della libertà di autodeterminazione implica per le autonomie locali il dovere di rispondere del proprio operato nei confronti della comunità amministrata e del complessivo sistema istituzionale.

D'altronde, l'aumento, almeno potenziale, delle risorse e dei servizi direttamente gestiti dalle comunità locali, nonché il rafforzamento della loro rappresentatività ed identità politica, hanno accentuato, senza alcun dubbio, il rapporto di responsabilità nei confronti dei cittadini.

Lo stesso principio di unità, contenuto nell'articolo 5 della Costituzione, non deve più essere letto solo come limite all'autonomia degli enti locali.

L'affermarsi del pluralismo istituzionale, proprio del recepimento dei princìpi comunitari,a partire dal principio di sussidieriatà significa che tutti gli enti che compongono l'assetto repubblicano italiano hanno pari dignità. E tutti, indistintamente, devono orientare la loro azione verso il principale obiettivo di sviluppare la persona e le comunità locali, secondo una visione non totalitaria, né accentrata della vita pubblica.

Le autonomie locali, ricordando il pensiero dell'autorevole Carlo Esposito, vanno pensate quali centri (cito testualmente) "di vita effettiva ed individuata nella vita dello Stato"; esse "non hanno rilievo solo per la organizzazione amministrativa, ma incidono in profondità nella struttura interiore dello Stato"; sono "espressione, modo di essere, garanzia di democrazia e di libertà".

La riforma costituzionale del 2001, pur con talune contraddizioni, altro non ha fatto se non confermare questa impostazione, optando per un pluralismo istituzionale che poggia le sue basi nella logica della sussidiarietà, estendendo anche ai comuni, alle province e alle città metropolitane la medesima garanzia e dignità costituzionale in precedenza riconosciuta soltanto alle Regioni.

Capire cosa sia successo dopo il varo di questa riforma è argomento non secondario. Se le riforme, come spesso accade, vengono vissute in una logica di mera riorganizzazione degli assetti istituzionali o, peggio, come esclusiva ripartizione di competenze e di potestà tra gli apparati pubblici, non ci si può poi sorprendere dei disservizi, delle inefficienze, della duplicazione dei costi e, ovviamente, del venir meno della stessa credibilità delle istituzioni pubbliche, di chi le governa e rappresenta.

Non credo di essere dissacratorio se sottolineo in questa importante Assemblea di sindaci ed amministratori, spesso lasciati soli nello svolgimento delle loro funzioni e nel pieno delle loro responsabilità, che in questi anni è mancata una vera e sincera collaborazione tra istituzioni territoriali e non solo territoriali.

Trovo in questo elemento di riflessione la ragione più profonda su cui ancorare la riforma sul federalismo fiscale, la cui riuscita non può prescindere anche da una riforma federalista dello Stato, ormai non più differibile.

In ragione delle osservazioni fin qui svolte, avverto la necessità di richiamare l'attenzione sul fatto che il federalismo fiscale o sarà basato su un'effettiva, leale collaborazione interistituzionale, capace di tener conto dei costi e degli impatti procurati dalle economie "parallele" di natura illegale, oppure rischierà di fallire minando ancor più la credibilità delle nostre istituzioni.

Occorre evitare il rischio che un processo di riforma, così profondo ed essenziale, si possa instradare su due percorsi paralleli e, al tempo stesso, divergenti: la questione istituzionale concepita in termini di gerarchie di potere e la questione finanziaria intesa quale mera riallocazione di risorse predeterminate sul territorio.

Non è retorico richiamare il profilo valoriale - inteso nel senso di cultura politica, istituzionale e amministrativa - di un cambiamento di mentalità che recuperi nei governanti, ad ogni livello, "spirito di servizio" e "senso delle istituzioni", mentre sono da evitare forme di egoismo tra istituzioni e tra territori lesive, queste sì, del principio di solidarietà attiva cui va correttamente e saggiamente informato il processo federalista in una prospettiva di rilancio del sistema paese nella competizione internazionale.

Con queste premesse diventa più concreta la possibilità di realizzare in Italia quella riforma che rappresenta in fondo "la madre di tutte le altre": la posta in gioco nell'attuazione del federalismo fiscale è, infatti, la vera riforma dello Stato in base al principio di responsabilità.

Senza federalismo fiscale, infatti, lo Stato non si ridimensiona, nonostante abbia ceduto forti competenze legislative ed amministrative, e gli enti locali e le Regioni non si responsabilizzano nell'esercizio delle nuove competenze ricevute.

Non è un caso che, negli ultimi anni, la Corte costituzionale abbia sottolineato in numerose occasioni (penso soprattutto alla sent. n. 370 del 2003) l'urgenza di dare attuazione all'articolo 119 della Costituzione.

E' allora indubbio che il nuovo processo federale o è fiscale o non ha alcuna efficacia.

Mantenere un modello di sostanziale "finanza derivata" in un Paese che ha decentrato competenze legislative crea soltanto confusione, dissocia la responsabilità impositiva da quella di spesa, genera una situazione di ingovernabilità dei conti pubblici.

E' opportuno ricordare che un sistema di finanza derivata finisce per premiare solamente chi ha speso di più, perché può continuare a farlo, rispetto a chi ha speso meno, con scarsi risultati sul piano dell'efficienza.

E' auspicabile, insomma, che con il federalismo fiscale si inizi a scrivere in Italia la storia del federalismo autentico, solidale, destinato a mettere fine a quel malcostume dello "scaricabarile" che ha caratterizzato in particolare gli ultimi anni.

La riforma del federalismo fiscale permetterà di imputare le responsabilità con chiarezza. Gli italiani potranno ottenere la "tracciabilità" dei tributi e sapere come e perché vengono spesi i soldi richiesti con le imposte e poi giudicare con il voto l'operato politico.

Ci sono, oggi, nel nostro Paese troppe differenze ingiustificate, come ci ricorda spesso la Corte dei Conti. Non è concepibile, ad esempio, che per una "tac" si paghi in alcune regioni 800 euro ed in altre 500, o che la spesa pro capite per bambino negli asili nido sia fortemente diversa tra Roma e Modena. In questi casi non si tratta di gap strutturali, bensì di vere e proprie differenze che non trovano giustificazione, il cui costo ricade, come è ovvio, sulla fiscalità generale, cioè sui contribuenti.

Conoscendo la sensibilità degli amministratori locali per questi temi, lasciatemi coltivare la speranza che da questa Assemblea venga una netta presa di distanza verso ogni forma di separatismo istituzionale, verso visioni della azione pubblica che non siano improntate alla leale collaborazione tra i vari livelli di governo, all'idea di un uso disinvolto e personalistico dell'amministrazione, spesso vissuta come trampolino di lancio per altri e più remunerati incarichi.

Come pure credo vada definitivamente superato, proprio ai fini di una più corretta definizione del raccordo tra responsabilità, partecipazione e democrazia nei comuni, il limite della durata del mandato di sindaco.

Personalmente ritengo la permanenza di siffatta limitazione anacronistica oltre che palesemente lesiva del principio di uguaglianza tra i vari organi elettivi di governo della sfera pubblica.

In quest'ottica, tuttavia, andrebbe, a mio avviso, valorizzato, in un quadro di opportuno "riequilibrio dei poteri", il ruolo dei Consigli Comunali. Non sfugge a nessuno, infatti, come ad una maggiore verticalizzazione dei poteri locali scaturita dalla elezione diretta del sindaco abbia, progressivamente, fatto riscontro una perdita di ruolo da parte delle Assemblee elettive, con conseguenze dannose per la stessa stabilità amministrativa e la vita dell'ente.

Valorizzare le Assemblee non significa, ovviamente, sottrarre quote di potere ai sindaci. Significa, invece, rendere effettivo e più incisivo il potere di indirizzo e di controllo delle prime, implementando, ad esempio l'esercizio di queste funzioni con atti di carattere amministrativo generale.

Ciò si rende ancor più necessario se solo si pensa all'utilità di elevare il livello della qualità e della trasparenza nelle decisioni amministrative, pur nel rispetto dei ruoli di maggioranza e di opposizione. Non va mai dimenticato che le scelte operate con la massima trasparenza e pubblicità esaltano il principio di responsabilità, che è alla base dell'ordinamento democratico.

E' noto a tutti quanto sia complesso e difficile governare un Comune, piccolo o grande che sia. La ristrettezza delle risorse e una legislazione spesso contraddittoria e troppo di dettaglio non aiuta chi deve rispondere ai bisogni della propria comunità, soprattutto oggi, che le esigenze del governo locale richiedono risposte e soluzioni diverse dal passato.

All'elaborazione e all'attuazione delle politiche partecipa un numero sempre crescente di soggetti pubblici e privati, portatori di interessi di parte e diffusi, che interagiscono con il governo locale. Questo carica di enormi responsabilità l'amministratore locale e l'apparato pubblico, cui si chiede una più spiccata dose di managerialità e una maggiore attitudine alla cooperazione interistituzionale, e soprattutto il passaggio a nuovi modelli di relazione, sempre meno di "government" e sempre più di "governance".

Questi elementi di fondo, che tracciano una nuova stagione per gli enti locali, contribuiscono a delineare un ruolo nuovo della amministrazione locale volto a garantire la sicurezza e il controllo del territorio oltre al prelievo delle imposte, che va molto al di là del ruolo "tradizionale".

Se, infatti, l'obiettivo è quello di produrre servizi, in particolare sul terreno del welfare e della coesione sociale, di maggior qualità e al costo più basso possibile, va da sé che per gli enti locali si profila un compito ancor più strategico della sola organizzazione e gestione dei servizi ai cittadini, soprattutto a fronte di nuove sfide come quella della immigrazione o di pressanti emergenze, come quella economica.

Da ultimo, colgo l'occasione per accennare al complesso ed articolato tema dei servizi pubblici locali, che necessiterebbe di uno specifico momento di approfondimento.

E' indubbio che la degenerazione della politica ha trovato, non di rado, terreno fertile nella gestione opaca e non chiara dei servizi pubblici locali che, invece di rappresentare dei veri e propri "servizi" rivolti alla cittadinanza, si sono spesso dimostrati "serventi" rispetto ad esigenze inconfessabili del ceto politico di questo o quel colore.

La politica non è sempre stata aliena dall'utilizzare le strutture dedicate all'erogazione dei servizi pubblici anche per soddisfare "clientele" di varia natura, senza porsi, al contrario, obiettivi di qualità ed efficienza dei servizi offerti.

Numerose sono state le riforme varate in questo settore nel corso di questi ultimi anni. Molte di queste, alla prova dei fatti, hanno dimostrato di non essere state idonee a garantire un quadro certo di regole e, soprattutto, di limitare la tendenza al nuovo "socialismo municipale", che sottrae spazi al mercato e scarica le inefficienze sulle spalle di inconsapevoli contribuenti.

Occorre, e bisogna avere il coraggio di dirlo, una decisa svolta che metta al centro degli interessi i cittadini "utenti-contribuenti", svolta che non solo va auspicata, ma va realizzata, e che non sia finalizzata unicamente alla tutela dell'esistente, spesso giustificata, in maniera pretestuosa, con la mera necessità di difendere gli spazi garantiti alle municipalizzate contro il presunto pericolo rappresentato dal ricorso al libero mercato.

Il mercato in questo settore rappresenta, invece, non certo un rischio, bensì un deterrente ai comportamenti poco virtuosi.

Spetta alle forze politiche tutte avviare una riflessione attenta per introdurre nuovi meccanismi che consentano di individuare, nel rispetto dei princìpi di competitività, obiettivi quali quelli della qualità, dell'efficienza e del minor costo possibile per gli utenti a prescindere dalla natura pubblica o privata degli stessi gestori.

In sintesi, è in questo complessivo rilancio progettuale che, a mio avviso, sta il dato istituzionale saliente da valorizzare, per meglio corrispondere alle attese dei cittadini e per garantire quel "buon governo" da cui dipende la credibilità del Paese agli occhi della Comunità internazionale.

Voglio dire che, in siffatta dinamica evolutiva, l'ente non può che essere costantemente orientato allo sviluppo del territorio e allo sviluppo di comunità. Il sindaco, in ultima istanza, potrà meglio riuscire in questa nuova e più alta "missione" quanto più farà valere autorevolezza e capacità persuasiva rispetto al dato autoritativo ed efficientista.

Ruolo di regia, dunque, e capacità di pensare alla città, al suo decoro e al suo sviluppo, con la lungimiranza di chi riesce a valutare le ricadute delle dinamiche insediative, demografiche e migratorie.

Un futuro che è affidato, preminentemente, a voi, cari sindaci e amministratori degli oltre 8 mila comuni italiani, cui rivolgo con sincerità e rispetto il ringraziamento più sentito.

Auguro a Lei, Presidente Champarino, un buon lavoro nella guida di una Associazione importante qual è l'ANCI, con l'auspico che quest'ultima, proprio nell'ambito della riforma in senso federale dello Stato, possa vedersi riconoscere un ruolo istituzionale più pregnante.

Sono consapevole che la stagione che stiamo vivendo, pur in presenza di importanti fermenti riformatori, presenta luci ed ombre. Sappiamo quanta distanza, a volte, separi il governante dal governato.

Spetta, pertanto, a chi ricopre incarichi istituzionali e alle forze politiche in generale interrogarsi su tali disagi ed indicare le soluzioni adeguate, al di là delle passioni che spesso dividono, nella ricerca costante di quel bene comune che deve essere la stella polare di ognuno di noi.