Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

04/05/2011

Montecitorio, Sala del Mappamondo – Presentazione del libro “La Balena bianca – L’ultima battaglia 1990-1994” di Gerardo Bianco

Autorità, signore, signori!

Il libro di Gerardo Bianco "La Balena bianca" è una densa e serrata conversazione con il giornalista Nicola Guiso sulla Democrazia cristiana nell'ultima fase della sua parabola politica, gli anni che vanno dal 1990 al 1994.

Saluto l'autore, al quale mi lega una stima antica, unitamente agli illustri oratori: Piero Craveri, Giuseppe De Rita, Andrea Riccardi, Giuseppe Vacca.

Il racconto di Bianco si riferisce in particolare al lavoro dei Gruppi parlamentari democristiani in anni di cruciali passaggi storici sul piano internazionale (sulla spinta della caduta del Muro di Berlino, dell'implosione dell'Urss e degli accordi di Maastricht) e su quello interno, per effetto della crisi dei partiti e della loro successiva scomparsa sull'onda della cosiddetta Tangentopoli.

L'autore afferma di avere voluto, con questo volume, porre rimedio ad uno "smarrimento di memoria" riguardo al ruolo svolto dai deputati della Dc per scongiurare la crisi economica e finanziaria del Paese e favorirne la governabilità, soprattutto durante la breve e travagliata XI legislatura, tra il 1992 e il 1994.

Bianco, che fu in quella legislatura Presidente del Gruppo democristiano alla Camera, offre una testimonianza di grande spessore politico e autorevolezza. Una testimonianza intensa e appassionata, ma allo stesso modo serena e analitica.

Il libro offre numerosi motivi di riflessione storico politica, in particolare riguardo alle cause della crisi del sistema che aveva il suo perno nella Democrazia cristiana e va riconosciuto a Bianco il merito di offrire, accanto alla esposizione delle ragioni di quello che fu il suo partito, anche una serie di onesti e obiettivi rilievi critici che possono essere apprezzate anche da chi militava in altre esperienze politiche.

Come quando rileva che mancò, nel 1990 e nella previsione dei contraccolpi sul nostro sistema politico della caduta del Muro di Berlino, una decisa spinta al rinnovamento. "Ci si è affidati -osserva - a una prassi politica prudenziale, non priva di sapienza, ma preoccupata soprattutto della governabilità" . Il risultato però -continua Bianco - è che "la Dc veniva sempre più considerata incapace di governare efficacemente le trasformazioni in atto in campo sia economico sia sociale. Non furono assunte decisioni coraggiose, come accadde invece, proprio negli anni della crisi, nel periodo 1992- 1994. Ma ciò accadde fuori tempo massimo".

Sono parole che ci fanno intendere il dramma che la politica può vivere alla vigilia dei grandi cambiamenti.

La lezione che ce ne viene è che non bisogna mai indugiare sul terrenodell'iniziativa riformatrice quando si pensa che l'evoluzione sociale ed economica richiede cambiamenti decisi e strutturali.

Sarebbe arduo se non impossibile riassumere in poche parole tutte le riflessioni e le osservazioni contenute nel libro, in particolare sullo stile di governo e sulla prassi politica della Democrazia cristiana.

Troviamo ad esempio nel volume questa efficace definizione del doroteismo. "Era un metodo - cito testualmente - fatto essenzialmente di prudenza e troppe volte di staticità" , un metodo che però- a giudizio di Bianco- "riusciva ad assicurare gli equilibri di governo" in un'Italia dove era forte, fino al 1989, l'influenza della guerra fredda e dello "scontro ideologico tra sistemi politici inconciliabili".

Qui sorge spontanea una domanda: che ruolo ha effettivamente giocato, nella crisi della Dc, il venire meno delle condizioni storiche favorevoli al doroteismo?

C'è da dire che la formula delle alleanze Dc non appariva fondata, a cavallo degli anni '80 e '90, su una base solidissima, come lo stesso Bianco tende a confermare. L'intesa tra gli onorevoli Andreotti, Forlani e Craxi, raggiunta dai tre leader alla metà degli anni Ottanta, era stata -come scrive l'autore - "solo la presa d'atto di una situazione che imponeva ai democristiani e ai socialisti un'alleanza strategica, che peraltro non fu mai tale, al fine di garantire gli equilibri politici e la governabilità del Paese".

La grande questione che leggiamo in controluce nel libro di Bianco è come conciliare le esigenze della governabilità e della stabilità con quelle del rinnovamento e del riformismo.

Come affrontare cioè i problemi e le emergenze dell'oggi senza mai perdere di vista la necessità di costruire la società del domani. Come dialogare tra soggetti politici senza mai dimenticare la necessità di dialogare con la società.

E' un problema che, a tutt'oggi, non sembra aver ancora trovato una soluzione consolidata.

Le possibili risposte vanno indubbiamente cercate in diverse direzioni, a partire dalla necessità di attuare con convinzione un serio piano di riforme istituzionali, sociali ed economiche.

Ma vanno anche cercate sul piano della cultura politica condivisa, sul piano cioè della ricostruzione di quel baricentro ideale e culturale grazie al quale rendere più solido e proficuo il confronto politico.

Occorre che la politica si apra realmente alle nuove culture e alle nuove istanze che affiorano nella società, ma nella consapevolezza - e numerose manifestazioni in tal senso ve ne sono numerose nel corso Centocinquantenario dell'Unità italiana - che una delle prime condizioni per modernizzare il Paese è il rilancio della coesione sociale e nazionale.

La rilettura della recente storia politica italiana può fornire un contributo prezioso: il dibattito pubblico compirebbe un indubbio salto di qualità se la politica riuscisse a guardare al passato in una prospettiva comune. Il che non vuol dire né unanimismo né conformismo, semmai sereno confronto di idee per rafforzare quel nucleo di valori condivisi che costituiscono l'identità dell'Italia come Nazione democratica.

La memoria storica rievocata in questo libro è una memoria recente. E da Gerardo Bianco arriva, tra gli altri, un suggerimento su cui è interessante discutere. E' laddove osserva che l'idea di edificare la Seconda Repubblica "sul rigetto della Prima" rappresenta una forzatura politica e culturale. Da qui viene l'incapacità, a suo giudizio, di "fare i conti con il passato che, malgrado le ombre, le illegalità, le deviazioni, le congiure, le frequenti cadute ha costruito la Repubblica democratica dell'Italia".

Di qui anche il problema della transizione infinita che per l'autore ha un suo peccato di origine "nella pretesa -cito le sue parole - che ci fosse una libertà da ripristinare e quindi una democrazia da rifondare". Anche perché -dice sempre Bianco- "senza solide dottrine politiche che ispirano i partiti, e queste non si creano dal nulla, non si va da nessuna parte".

Va riconosciuta in senso positivo l'importanza di questo problema indipendentemente dal diverso giudizio che si può esprimere sui processi politici avvenuti in quegli anni. Occorre infatti ricomporre la memoria comune degli italiani, nella coscienza che l'obiettiva discontinuità tra due fasi della vita repubblicana, unita all'emergere delle nuove culture politiche e dei nuovi linguaggi del biennio 1993-1994, non può ispirare una narrazione sommaria e manichea della nostra storia politica.

La contrapposizione tra Prima e Seconda Repubblica mantiene sicuramente un suo significato storico politico e ha una sua efficacia esplicativa e comunicativa.

Però occorre fare attenzione agli abusi, alle eccessive semplificazioni o strumentalizzazioni, soprattutto se si pensa alla formazione civile dei giovani.

In primo luogo per l'ovvia considerazione che, in realtà, la Repubblica italiana è istituzionalmente e storicamente una sola e va declinata sempre al singolare. Può aver conosciuto - come ha conosciuto - cambiamenti politici repentini e radicali, ma è sempre la stessa, nata nel '46 e fondata sulle regole e sui valori sanciti nella Carta del 1948.

In secondo luogo perché c'è il rischio di imporre un'immagine retorica, con la conseguenza di ostacolare l'evoluzione delle culture politiche; e di fare da alibi a una insufficiente volontà riformatrice.

Va in particolare evitato di trasformare la cosiddetta Prima Repubblica, riferendoci in particolare alla sua fase finale e agli uomini che la governavano, nella classica notte in cui tutti i gatti sono bigi, la notte in cui tutto è confuso e in cui non emergono le distinte identità culturali, ideali e politiche di coloro che ne furono i protagonisti.

Stessa sorte va evitata alla cosiddetta Seconda Repubblica. Anche qui non bisogna fare né confusioni né approssimazioni. Perché l'esaltazione di una, pur indubbia, discontinuità non è, di per sé, sinonimo di vera novità.

La discontinuità, affinché non sia una formula vuota, va riempita di riforme e realizzazioni e, soprattutto, di contenuti morali e ideali. Non deve cioè accadere che l'evoluzione culturale conduca a un pragmatismo immemore e minimalista.

Il rischio è che la necessaria cultura del congedo dal passato si trasformi in congedo dalla cultura politica tout court. E si tratta di un rischioche stiamo vivendo in questa fase.

E' un discorso che può apparire ovvio solo nei Paesi che non hanno conosciuto le lacerazioni che ha invece conosciuto - e che per certi aspetti continua a conoscere - l'Italia-

E ciò deve spronarci a costruire una Italia realmente pacificata con la sua storia, condizione indispensabile per progettare e realizzare il nostro futuro.