Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

26/03/2009

Montecitorio, Sala della Regina - Convegno organizzato dall'Intergruppo parlamentare per la solidarietà sul tema "Crisi, sussidiarietà ed economia sociale di mercato"

Il convegno promosso dall'on. Lupi a nome dell'Intergruppo per la sussidiarietà e dal Network Associazioni e Fondazioni, ruota tutto intorno ad una domanda su cui si interroga in questi mesi l'opinione pubblica: che tipo di economia, di società e di politica emergeranno dalla grave crisi economica in atto? E che risposta verrà dalle Istituzioni nazionali ed europee?
Il Governo e il Parlamento italiano, allo stesso modo dei Governi e dei Parlamenti degli altri Paesi dell'UE, sono impegnati a fronteggiare il difficile momento attraverso piani di intervento per sostenere le fasce sociali più deboli e per favorire nello stesso tempo gli investimenti e il credito alle imprese.
Sono interventi modulati secondo le esigenze dei vari Paesi. Senza entrare nel merito delle singole politiche economiche, ritengo di poter coglierne il tratto comune nell'adesione complessiva ai princìpi dell'economia sociale di mercato. E' ben rintracciabile in tali politiche lo sforzo di garantire i diritti sociali senza mettere in discussione le conquiste raggiunte in questi anni della libertà di mercato e della internazionalizzazione economica.

Su un piano più strutturale e provando a guardare oltre all'emergenza, penso che sia necessario che al centro dell'economia e della società europee degli anni futuri si consolidi e si estenda l'applicazione del principio di sussidiarietà.
L'incontro tra le esigenze dell'autonomia della persona, delle imprese e dei corpi intermedi e le esigenze, altrettanto sacrosante, dell'intervento pubblico per garantire regole e favorire lo sviluppo può infatti propiziare l'affermazione di una società più dinamica e, nello stesso tempo, più vicina alle esigenze dei cittadini.
Su un piano più vasto - e qui il discorso non riguarda solo l'Europa - la complessità della recessione in atto configura la crisi odierna, non solo come crisi economica, ma come crisi di un modello di capitalismo e di globalizzazione. Questo tipo di capitalismo e questo tipo di globalizzazione hanno privilegiato la crescita vertiginosa di prodotti e profitti finanziari rispetto alla crescita, più lenta ma sicuramente più solida, della ricchezza prodotta dall'economia reale, quindi dalle imprese, dai manager e dai lavoratori.
Volendo individuare uno dei casi emblematici di questa trasformazione dobbiamo risalire al 2001, quando esplose negli Stati Uniti il caso Enron. Dico emblematico perché alla base del crack del colosso energetico americano ci fu la scelta dei suoi vertici di privilegiare la ricerca dei più rapidi ed elevati profitti di borsa rispetto all'espansione nel mercato energetico vero e proprio.
Ovviamente occorre fare bene attenzione a non estendere all'economia finanziaria in quanto tale la critica alla speculazione. Senza finanza non ci sarebbero né capitalismo né economia industriale.
Il problema è quello di regole che garantiscano un equilibrio tra le forze della finanza, dell'economia reale , della politica e degli Stati. Regole fin qui assenti o che i processi degli ultimi anni sembrano aver messo in crisi. I governi dell'Europa, degli Stati Uniti e delle potenze economiche emergenti - occorrerebbe cambiare lessico con potenze economiche "emerse" - non possono sottrarsi alla ricerca di nuove regole capaci di restituire fiducia ai soggetti della produzione, correggendo le gravi storture nel meccanismo di circolazione dei capitali finanziari.

In questo contesto, alla politica spetta un compito nuovo e, per certi aspetti, straordinario: non solo fare uscire l'economia dalla crisi, ma anche favorire l'affermazione di un nuovo modello di sviluppo più equo, più solido e più equilibrato.
Non è soltanto un problema politico ma culturale, nel senso che la politica deve ritrovare la sua collocazione in un mondo che nel giro di due decenni ha visto una significativa e massiccia riduzione dell'azione dello Stato nella società e nell'economia.
Veniamo da un periodo nel quale una fiorente pubblicistica ha assegnato alla politica stessa un ruolo subalterno nell'indirizzo dei grandi processi economici e sociali.
L'intransigenza della critica all'azione pubblica, soprattutto nel suo garantire le regole dell'attività economica, è andata al di là delle esigenze di modernizzazione del sistema.
E' paradossale che la fine della Guerra Fredda, che pure segnò la fine delle vecchie ideologie del Novecento, abbia visto progressivamente affermarsi una nuova ideologia, quella del mercato trasformato in totem.
E dire che fu proprio uno dei padri del pensiero liberale del Novecento, Friedrich August von Hayek, a marcare la differenza tra "intervento" pubblico, che agli occhi del pensatore poteva in taluni casi rivelarsi necessario, e "ingerenza", che viceversa mortificava lo sviluppo delle libere energie economiche e ostacolava il progresso della società.
Questa nuova ideologia è stata efficacemente descritta dal Ministro Giulio Tremonti nel libro "La paura e la speranza" uscito nei primi mesi dello scorso anno e nel quale sono descritti i rischi, avveratisi di lì a breve, di una globalizzazione non più governata da Stati e organizzazioni internazionali. In quell'occasione Tremonti coniò un termine, mercatismo, che è ormai entrato stabilmente nel lessico politico-economico.

Ha scritto il prof. Aldo Schiavone nel suo stimolante saggio "L'Italia contesa": "Che ogni decollo tecnologico debba necessariamente comportare una sua stagione di "capitalismo selvaggio" sembra quasi, ormai, una regolarità nella storia del mondo moderno, una specie di legge tendenziale del suo sviluppo.
"Ma soprattutto ha influito, nel provocare l'errore, l'idea - diffusasi rapidamente in tutto l'Occidente almeno dagli inizi degli anni ottanta del Novecento - che la politica, qualunque politica, prigioniera come si ritrovava di forme statali ormai obsolete, fosse diventata una figura regressiva, una forma depotenziata e scaduta, rispetto ad altre forze molto più in grado di incidere sul profilo del nostro futuro: la stessa tecnica, il mercato, le soggettività individuali e d'impresa, se lasciate padrone di agire e di decidere per il meglio, e cioè secondo i propri interessi particolari. "E' stato lo scacco della politica come luogo di formazione per eccellenza dell'interesse generale e del bene comune (abbiamo detto prima di una sua "stanchezza") a consentire negli ultimi decenni alle grandi reti della tecnoeconomia di disegnare in solitudine la forma civile e naturale del mondo: l'aver essa accettato di rinchiudersi in una funzione in qualche modo secondaria, subalterna, di puro assecondamento rispetto a scelte e decisioni prese altrove, sulla base di criteri senza trasparenza, dominati dall'opacità di poteri che non avrebbero mai dovuto rispondere alla collettività del loro operato".

Se è vero, e lo è certamente, che in ogni crisi, per quanto grave, c'è una opportunità, si può affermare che la fase economica attuale può permettere alla politica di ridefinire se stessa nel nuovo contesto storico. E di ridefinirsi senza ripetere gli errori del passato. Sia gli errori del passato remoto, durante il quale pretese di estendere il suo controllo a tutta la società. Sia gli errori del passato prossimo, quando non è riuscita a intervenire nelle patologie del sistema combattendo l'anarchia finanziaria e prevenendo le gravi difficoltà del sistema bancario internazionale. La stella polare cui orientarsi non deve essere quindi una vecchia o nuova ideologia, ma quella filosofia che fornisce da sempre le migliori prove sia nella vita individuale sia nella vita collettiva: la filosofia del realismo e della concretezza. E, a ben vedere, è proprio questo principio a offrire la prima ispirazione all'economia sociale di mercato.