Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

09/11/2010

Bucarest, Facoltà di Legge dell'Università - Lectio Magistralis sul tema "Sicurezza ed inclusione sociale: le sfide della nuova Europa"

Signor Rettore dell'Università di Bucarest, Stimati membri del Senato Accademico, Autorità, Signore e Signori!

L'obiettivo di garantire sicurezza nelle società industrialmente avanzate ed inclusione sociale, nell'ambito delle società industrialmente avanzate, comporta il superamento di molteplici ostacoli resi ancora più ardui dalla presenza di fenomeni propri dei cambiamenti epocali in atto.

L'Europa, in particolare, è chiamata a misurarsi anche su questi temi, consapevole di dover recuperare una sua centralità strategica, così da uscire da una condizione di disagio che rischia di confinarla in ruoli sempre più marginali.

Si impongono, peraltro, nello scacchiere internazionale, nuove superpotenze in grado di assumere, talora anche in ragione del carattere non pienamente democratico dei rispettivi regimi politici, decisioni che incidono in maniera significativa sulla vita di altri paesi, per effetto dell'intensificarsi degli scambi e della più forte interdipendenza delle economie.

Più in generale, il fenomeno della globalizzazione, come dimensione ordinaria delle dinamiche economiche e sociali, determina una serie di conseguenze e pone nuovi problemi per la cui soluzione le tradizionali risposte politiche, e le stesse analisi scientifiche, appaiono talvolta inadeguate, se non addirittura insufficienti.

Colpisce, soprattutto, la concomitanza temporale con cui si impongono all'attenzione generale sfide sempre più impegnative.

Sul piano economico, mi limito a segnalare nell'ordine: l'accentuazione della concorrenza delle cosiddette economie emergenti, che suscita diffusi timori riguardo la capacità di competere e di reagire da parte dei sistemi economici maturi; la volatilità dei mercati finanziari e le pesanti ripercussioni che le relative crisi provocano sull'economia reale (basti pensare alla perdita di posti di lavoro e all'innalzamento dei tassi di disoccupazione); il diverso trattamento dei vari fattori produttivi per la tendenza a privilegiare il capitale, più mobile, a scapito del lavoro, cui consegue, sul piano sociale, l'allargamento dell'area del precariato e la crescita del disagio esistenziale da parte delle giovani generazioni, che avvertono l'assenza di certezze e di prospettive future.

Sempre sul piano sociale, si devono registrare sia un progressivo invecchiamento della popolazione che causa profondi cambiamenti nella domanda di servizi assistenziali - con inevitabili ricadute sulla spesa pubblica a fronte di vincoli finanziari sempre più stringenti che impongono drastiche scelte per aggiornare i modelli di Welfare - sia l'esplosione dei flussi migratori che ormai hanno assunto dimensioni di massa.

Sul piano, invece, dell'ordine pubblico, occorre segnalare la crescita costante della dimensione transnazionale di fenomeni come la criminalità organizzata, la tratta di esseri umani, la pedopornografia, la minaccia insidiosa, perché difficilmente prevedibile, del terrorismo.

Questo rapido quadro d'insieme, senza alcuna pretesa di essere completo, consente, comunque, di considerare quanti e di quale rilievo siano i fattori che alimentano ansia, disorientamento e una domanda di sicurezza che aumenta sempre di più nei paesi dell'euro-zona.

La sfida che il nostro continente è chiamato a fronteggiare è resa più complicata dal fatto che alcuni fattori oggettivi di criticità stanno innescando un forte disagio non soltanto nell'opinione pubblica, ma anche nelle classi dirigenti.

Ne consegue la tendenza a reagire assumendo atteggiamenti di contrapposizione pregiudiziale nei confronti delle novità che, di volta in volta, irrompono e stravolgono abitudini di vita che si credevano consolidate.

Il dato più allarmante è rappresentato dalla percezione, che si ha sia all'interno che all'esterno, di un'Europa stanca, vecchia tanto dal punto di vista anagrafico e di un'Europa, che sotto il profilo dei meccanismi istituzionali e delle regole appare, sostanzialmente, incapace di proporsi, con la necessaria convinzione, come leader a livello internazionale.

Valgano per tutte due recenti esperienze. La prima è quella della Conferenza di Copenaghen sui cambiamenti climatici, dove l'Europa, pur presentandosi come l'unico soggetto che già aveva assunto impegni puntuali per la riduzione delle emissioni inquinanti, non ha saputo imporre il suo punto di vista.

La seconda è costituita dalla crisi economico-finanziaria di cui l'Europa sta subendo pesantemente le ripercussioni, sebbene non siano sue le responsabilità. Il paradosso è che gli Stati Uniti stanno adottando politiche di bilancio e monetarie assai più disinvolte di quelle estremamente rigorose poste in essere dall'Unione Europea, con il risultato che le economie del nostro continente non possono avvalersi né dei massicci interventi di sostegno della domanda, né del vantaggio competitivo di una moneta svalutata come avviene negli USA.

In questo difficile scenario, occorre, pertanto, reagire, operando su un doppio fronte: quello delle politiche e quello, non meno insidioso, della psicologia collettiva per invertire il sentimento della sfiducia e del pessimismo.

Il filosofo polacco di origine ebraica, Zygmunt Bauman, spiega che ci troviamo di fronte ad un circolo vizioso di cui rimangono vittima le società moderne che, per loro natura, sono portate ad esporre tutte le fasce sociali agli stessi rischi, pur non offrendo loro le stesse opportunità: la paura alimenta il bisogno di sicurezza ed è, a sua volta, alimentata da questo bisogno.

E', peraltro, innegabile che la crescita della domanda di sicurezza è talora strumentalmente innescata da chi ritiene di poter trarre vantaggio da una mobilitazione di tipo emotivo dell'opinione pubblica.

Si alimentano fobie e conflitti secondo la logica perversa e infruttuosa della contrapposizione "amico-nemico" in un ossessivo e claustrofobico rifiuto del confronto con l'altro, ovvero attraverso la deformazione della realtà in modo da evidenziarne esclusivamente i tratti più inquietanti.

Viene, quindi, da chiedersi se il ricorso a queste tecniche non risponda anche all'esigenza di attribuire a non meglio definiti fattori esterni insuccessi che andrebbero, invece, imputati alla propria incapacità di reagire e di fronteggiare adeguatamente i problemi che si presentano.

Probabilmente, anche la caduta delle ideologie e dei paradigmi condivisi accentua il senso di disorientamento in quanto fa venire meno i tradizionali strumenti di interpretazione dinanzi all'insorgere di fenomeni nuovi e poco conosciuti.

Sarebbe, pertanto, del tutto sbagliato denigrare le reazioni e i timori così diffusi in ampi settori della società affermando che si tratta solo di paure irrazionali.

Lo sforzo che viene richiesto alle istituzioni, sia nazionali che sovranazionali, è quello di ascoltare con attenzione i segnali che arrivano dai cittadini, di coglierne le ragioni e, allo stesso tempo, di acquisire tutti gli elementi di informazione utili per capire le reali dimensioni dei fenomeni, per poi verificare se e quali interventi possano essere messi in campo.

In altre parole, è sempre più necessario adottare strategie coerenti, evitando l'errore di sommare interventi frammentari e contraddittori.

Ovviamente, la definizione di una strategia organica è cosa complessa e richiede ampi tempi di elaborazione. Tuttavia, deve essere chiaro che non esistono alternative; non avrebbe senso tentare di affrontare le singole questioni a prescindere dal quadro complessivo.

Questo è il motivo per cui l'approccio adottato dall'Unione Europea merita grande apprezzamento anche alla luce della cosiddetta "Strategia di Stoccolma" con cui l'Unione ha cercato di aggiornare i propri indirizzi in materia di libertà, sicurezza e giustizia.

L'apprezzamento è fondato, in primo luogo, sullo sforzo compiuto per definire un programma ambizioso, da realizzare in un arco temporale che non si esaurisce in una sola annualità, ma comprende il periodo dal 2010 al 2014 e che implica uno stretto collegamento tra le politiche dell'Unione Europea e quelle degli Stati membri, oltre che l'attivazione di misure più forti.

Sotto questo profilo, "sicurezza" e "inclusione sociale" vanno affrontati insieme e le diverse misure devono procedere in parallelo. Non ci si deve limitare ai soli profili della sicurezza interna ed esterna a scapito di quella che costituisce l'espressione più alta della cultura politica e giuridica dell'Europa, vale a dire la salvaguardia dei diritti fondamentali di tutti i cittadini europei.

Ed è proprio la "questione sicurezza" a rappresentare oggi un terreno decisivo per misurare il grado di maturazione e di diffusione della cultura della legalità e dei diritti inviolabili nei sistemi democratici.

In quest'ottica, la necessità di garantire un'adeguata tutela della sicurezza affonda le sue radici nella consapevolezza che ampliare lo spazio dei diritti, degli interessi e degli obblighi giuridici significa soprattutto definire il livello di interazione che, necessariamente, deve intercorrere tra ciascun individuo, la collettività, le istituzioni pubbliche.

E', quindi, proprio sul terreno delle libertà, e sul contemperamento tra esigenze di libertà e quelle di sicurezza che si giocherà il futuro dello Stato di diritto e, in ultima analisi, della democrazia.

D'altra parte, il risultato più importante dei più recenti allargamenti dell'Unione Europea è proprio costituito dall'aver solidamente ancorato paesi che uscivano da decenni di regimi dittatoriali ai valori dello Stato di diritto e della democrazia.

Democrazia intesa non come forma procedurale cristallizzata, bensì come un "regime" in continua evoluzione ed oggetto di costante aggiornamento nelle regole di funzionamento e nelle politiche di carattere sociale ed economico.

Quello della sicurezza, nella sua accezione più ampia, è probabilmente il terreno più impegnativo e delicato su cui dovranno misurarsi le democrazie evolute per individuare modelli organizzativi e regole procedurali in grado di coniugare la massima trasparenza e il più largo coinvolgimento con la capacità di reagire rapidamente e con efficacia ai problemi.

Al contempo, l'impegno dell'Unione Europea può rappresentare un parametro cui rapportarsi per i paesi che si accingono ad evolvere verso la democrazia, ovvero che siano impegnati nel processo di consolidamento dei propri sistemi democratici.

Se, per certi versi, in una logica di inclusione, gli standard raggiunti dall'Europa, e, attualmente, in via di affinamento per quel che riguarda la salvaguardia dei diritti e la tutela della sicurezza, possono sembrare troppo elevati per paesi e regimi meno evoluti, per altri versi, è innegabile che le risposte che, di volta in volta, l'Europa ha cercato di individuare costituiscono un imprescindibile punto di riferimento.

In molti paesi, oggi, assistiamo ad un disallineamento temporale assai vistoso per cui all'imporsi, qualche volta in termini brutali, delle regole della competizione globale tra mercati non si accompagna un parallelo percorso di democratizzazione.

In qualche caso, la persistenza di regimi autoritari - in cui i diritti dei singoli e delle comunità sono sacrificati in funzione del conseguimento di obiettivi sempre più ambiziosi di sviluppo produttivo - appare proprio strumentale alle priorità imposte da una ferrea programmazione economica.

Si alimentano, in tal modo, tensioni sempre più forti tra l'aspirazione alla libertà e alla tutela della propria sfera giuridica e le ragioni della crescita a tappe forzate. Non è casuale che in alcuni di questi regimi i più oculati e previdenti dei membri delle classi dirigenti comincino a porsi seriamente il problema di cominciare ad introdurre elementi di democrazia, studiando ed eventualmente mutuando alcuni dei tratti portanti dei sistemi giuridici europei.

Al riguardo, comunque, non vi può essere sicurezza senza legalità, così come non vi può essere legalità senza rispetto della dignità della persona, ai suoi vari livelli. Che certi gradi di divaricazione tra sicurezza e legalità possano sussistere è inevitabile, entro certi limiti, anche in situazioni ordinarie.

Ciò che, invece, rappresenta un grave rischio è una "cronicizzazione" e "normalizzazione" dell'emergenza, idonee a trasformare il ricorso a misure eccezionali in una sorta di prevenzione senza fine, giustificata dai pericoli di varia natura.

In altre termini, il rischio è quello di enfatizzare e di strumentalizzare paure ed insicurezze sociali per imporre vincoli alle libertà, secondo un criterio che negherebbe l'opportuno e ragionevole bilanciamento tra il rispetto dei diritti fondamentali e la necessaria protezione da assicurare all'ordinamento democratico.

Questo è un rischio causato non tanto e non solo dall'assuefazione all'indebolimento dei diritti, quanto e soprattutto dalla confusione tra due piani temporali completamente diversi.

Per semplificare ancora, il rischio è quello di invertire le proporzioni temporali dei due termini, considerando l'emergenza quale condizione duratura e perenne dell'odierna civiltà, quasi un portato inevitabile delle contraddizioni di un mondo poco omogeneo, e considerando, per contro, i diritti quale variabile dipendente, elastica, come qualcosa che può e deve plasmarsi secondo la contingenza storica, comprimibile e, quindi, adattabile alle circostanze.

Come ha scritto il giudice Stevens in una recente sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti sul "caso Guantanamo", "non si possono - cito testualmente - usare le armi dei tiranni neppure per resistere agli attacchi delle forze della tirannia".

Dobbiamo, quindi, entrare nell'ordine delle idee che viviamo in società molto complesse dove le variabili in campo sono molto più numerose che in passato.

Ne consegue, ovviamente, che occorre fare uno sforzo di onestà intellettuale, evitando di trasmettere all'opinione pubblica messaggi eccessivamente semplicistici.

Troppo spesso le autorità politiche oscillano tra la tendenza ad alimentare l'illusione che tutti i problemi possono essere fronteggiati attraverso risposte che rappresentano dei veri e propri "slogan" e la tendenza a cadere in una sorta di fatalismo opposto che induce a ritenere che nulla si possa fare per la concomitanza di troppe cause esterne.

Nella convinzione, allora, che la sicurezza non può essere ridotta a una questione da affrontare soltanto con l'uso della forza, della coercizione o attraverso l'ingiustificata limitazione dei diritti inviolabili, dobbiamo impegnarci per trovare soluzioni innovative ed originali.

A tale proposito, l'ordinamento e la giurisprudenza delle istituzioni europee costantemente sanciscono il principio dell'irrinunciabilità della piena valorizzazione della libertà, della democrazia e della dignità umana.

L'articolo 6 della Carta europea dei diritti fondamentali afferma il diritto di "ogni persona alla libertà e alla sicurezza".

La scelta dell'Unione Europea di affrontare in una logica organica le diverse questioni discende anche dalla presenza, all'interno della stessa Unione, di situazioni assai differenziate, per cui non tutti gli Stati membri sono esposti nella stessa misura ai medesimi rischi cui ho fatto riferimento in precedenza.

Da questo approccio, ne consegue che tutti i diversi aspetti vanno affrontati simultaneamente; a titolo di esempio, non può esservi efficace lotta alla criminalità in assenza di uno stretto coordinamento e di uno scambio di informazioni tra competenti amministrazioni, ovvero senza interventi che mirino a ridurre l'area dell'emarginazione e del degrado attraverso politiche attive per l'integrazione.

L'adozione di politiche a carattere trasversale, quali sono quelle prefigurate nel "Programma di Stoccolma" per quanto concerne l'area delle libertà, della sicurezza e della giustizia, non può essere neanche concepita senza il contributo di specialisti di diverse discipline.

Al delicato lavoro di intelligence deve accompagnarsi la capacità di decifrare gli andamenti demografici e i risvolti che possono derivarne in termini di immigrazione; la scelta di seguire i canali attraverso i quali passa il finanziamento, anche a livello internazionale, delle organizzazioni criminali e terroristiche; la volontà di monitorare l'uso della rete globale della comunicazione.

Più concretamente, tutto ciò evidenzia la necessità di ricorrere a varie tipologie di interventi.

Accanto all'attenzione posta ai vantaggi che possono derivare da uno stretto coordinamento tra i diversi organismi nazionali e tra le apposite agenzie europee istituite allo scopo di rendere gli strumenti operativi più agili ed efficaci (Eurojust, Europol e Frontex per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne), l'Unione Europea intende adottare misure ad alta valenza politica come la stipula di accordi con i Paesi di provenienza per la promozione di opportunità di sviluppo locale volte a prevenire la diffusione di comportamenti illegali o la strumentalizzazione degli immigrati da parte di organizzazioni criminali.

Il che significa che sempre di più le strategie in materia di libertà, sicurezza e giustizia determinano le priorità della politica estera.

L'Europa non può pretendere e non pretende di imporre con la forza la propria visione e i propri valori. Piuttosto, il metodo è quello di prospettare con chiarezza tutti vantaggi che possono essere conseguiti attraverso una attiva collaborazione e un confronto non pregiudiziale con i diversi partners anche ai fini della affermazione dei diritti e della condivisione di strategie in materia di sicurezza.

In questo modo, l'intreccio molto stretto tra politiche di sicurezza e tutela dei diritti, sulla base dei risultati particolarmente avanzati, offerti e non imposti dall'esperienza europea, assume le caratteristiche utili di un modello da prendere a riferimento, innescando dinamiche positive non soltanto nelle autorità, ma anche nelle società civili di altri paesi.

Non è casuale l'attenzione che l'Unione Europea attribuisce al ruolo che le diverse forme di associazionismo possono svolgere anche in queste materie. Ad esempio, appare crescente il peso che assume, nelle linee strategiche della politica di cooperazione dell'Unione Europea, la valorizzazione delle organizzazioni rappresentative della società civile, ovvero delle ONG, interlocutori fondamentali per le istituzioni pubbliche.

In questa prospettiva, assumono, altresì, particolare rilievo le iniziative finalizzate ad armonizzare e semplificare le procedure per la concessione del diritto all'asilo, così come per quanto concerne le politiche per l'immigrazione che uniscono al potenziamento del controllo delle frontiere esterne il contrasto al traffico di immigrati irregolari, controllato da organizzazioni criminali particolarmente violente.

Tali misure vanno ricondotte alle strategie più generali con cui viene garantita la promozione dell'inclusione e della protezione sociale, considerato che oltre il 15% della popolazione dell'Unione Europea, ovvero quasi 80 milioni di persone, è esposto al rischio di povertà.

Nell'accezione dell'Unione Europea, "inclusione sociale" significa fare in modo che tutti, con particolare riferimento ai gruppi più deboli, possano esercitare compiutamente i diritti di cittadinanza e svolgere appieno un ruolo attivo nel mondo del lavoro e nella società, disponendo di pari opportunità.

In Europa, in genere, i sistemi di protezione sociale sono particolarmente avanzati, al punto di costituire un unicum a livello internazionale: proteggono le persone dai rischi di redditi inadeguati legati alla disoccupazione, alla malattia e all'invalidità, alle responsabilità genitoriali, all'età avanzata, alla perdita di un coniuge o genitore. Inoltre, garantiscono l'accesso ai servizi essenziali per una vita dignitosa.

Si pongono, tuttavia, non pochi problemi per quanto concerne la sostenibilità finanziaria degli attuali modelli di Welfare alla luce del costante invecchiamento della popolazione (secondo le più recenti proiezioni, la percentuale di cittadini di età pari o superiore ai 65 anni crescerà del 77 % entro il 2050).

Quasi tutti gli Stati membri hanno avviato, da tempo, un ampio processo di riforma dei sistemi pensionistici, sanitari e di assistenza a lungo termine, al fine di conciliare il carattere universale dei relativi servizi con la loro sostenibilità finanziaria.

L'intervento dell'Unione Europea nel campo della sicurezza sociale può, tuttavia, difficilmente realizzarsi con misure di integrale armonizzazione.

Fatto salvo il caso dei cittadini che circolano liberamente e che, quindi, interagiscono con diversi sistemi nazionali di sicurezza sociale, per i quali deve vigere un sistema unitario o almeno unificante, pensare a sistemi omogeneizzati da Tallin a Lisbona, da Cipro a Francoforte, da Roma a Bucarest non è realisticamente praticabile.

Pertanto, gli strumenti debbono essere adeguati a questa realtà e soltanto quelli riconducibili al piano del "soft law" possono aprire la strada a più omogenee condizioni di sicurezza sociale dei 400 milioni di abitanti dell'Unione.

C'è, però, una condizione essenziale che può determinare il successo o meno, in un periodo certamente non breve, di una strategia fondata sugli strumenti del "soft law", ed è la determinazione chiara di un insieme di valori cui ispirarsi.

Non le genericità programmatiche finora enunciate, ma scelte valoriali forti: la tutela della salute come precondizione al godimento di ogni altro diritto sociale; l'uguaglianza sostanziale da perseguire come risultato di un'inclusione sociale che si avvalga di mezzi economici adeguati e organizzati; i livelli minimi di istruzione scolastica.

Allo stesso modo, il tema della sicurezza è tra quelli su cui si misurerà la capacità dell'Europa di continuare a svolgere una funzione fondamentale negli scenari internazionali, al di là del peso del nostro continente dal punto di vista degli equilibri strategici.

L'Europa può offrire ancora modelli particolarmente avanzati; l'incessante lavoro di affinamento degli strumenti e delle politiche evidenzia l'impegno dell'Unione Europea per aggiornare il quadro normativo alla luce delle novità e dei rischi che, via via, si presentano senza, tuttavia, rinunciare agli standard elevatissimi raggiunti nel tempo per quanto riguarda la stessa salvaguardia dei diritti.

Come ha scritto, nel suo ultimo saggio, il sociologo tedesco Ulrich Beck, "gli Stati nazionali hanno il dovere di uscire dai confini asfittici delle politiche consuete, devolvendo ampi spazi di manovra alle istituzioni europee, così da creare una simmetria tra le dimensioni di scala dei problemi globali che si pongono e la strumentazione attivata per farvi fronte".

Perché tutto ciò si realizzi, occorre, però, che l'Europa ritrovi la forza di esprimere una volontà politica che non sia soltanto la somma di volontà nazionali capaci di cancellarsi reciprocamente nella necessità di trovare un accordo, ma che, invece, sia la somma di volontà nazionali in grado di rilanciare un progetto di Europa più condiviso e più adeguato nell'interesse esclusivo delle nostre future generazioni.

Sappiamo che non è facile. Ma è indispensabile che tutti i governi e i parlamenti degli Stati membri dell'Unione ne siano coscienti e che almeno cerchino di riuscirvi.

Grazie.